Le recensioni di Connessioni Letterarie
Zazie tra sogno, realtà e metrò
Quando in un’intervista a Louis Malle, il critico cinematografico Philip French gli chiese che cosa lo avesse spinto a realizzare un film sul romanzo di Raymond Queneau, Zazie nel metrò, il regista rispose: “Inizialmente, la difficoltà. Il libro era appena uscito, e credo fu il primo, e probabilmente l’unico, di Queneau a diventare un best-seller. Il libro era divertentissimo, fu un romanzo di cui parlarono tutti quanti”. Difatti, pur essendo ricco di sperimentalismi e artifici retorici – in pieno stile Queneau -, Zazie nel metrò (1959), è sicuramente tra i romanzi più fruibili dell’autore, per l’appunto, una sorta di “best-seller”.
L’innovazione nell’opera di Queneau, non si limita agli aspetti formali, in cui è facile rilevare la mescolanza di stili letterari e di pastiches, ma avvolge l’intero romanzo, conferendo movimento e surrealismo anche alla storia narrata. Il lettore resta affascinato dal susseguirsi frenetico delle azioni, dall’accumularsi progressivo di nuovi personaggi, ma soprattutto dal linguaggio spigliato e talvolta indecente della piccola protagonista.
Sin dalla prima scena, quando Zazie viene a conoscenza – scena cruciale del romanzo – di uno sciopero che terrà fermo il suo adorato metrò per tutta la giornata, esordisce con un’imprecazione delle sue:
– Ah, porci […] ah, cialtroni. Farmi una roba così!
– Mica soltanto a te, – dice Gabriel. Perfettamente oggettivo.
– Me ne sbatto. È a me che succede, io che ero tanto felice, beata e tutto, di scarrozzarmi in metrò. Eh, c…!
Nel breve romanzo si affollano gli “e che c…!” e “col c…!” pronunciati da Zazie quasi come fossero intercalari del suo vivacissimo linguaggio. La disincantata bambina della provincia parigina, si addentra nella pericolosa rete di incontri e scontri della capitale francese degli anni ’50 senza mostrare incertezze o paure, ma portandosi sempre dietro la sua aria beffarda e la sua irriverenza da donna vissuta.
Questa è la grande trovata dell’opera di Queneau: creare un personaggio ibrido, fuori bambina e dentro donna, che colpisce il lettore con la sua ambivalenza sfacciata. Sembra, ad una prima lettura, di ritrovare la celebre vecchia di Pirandello de L’Umorismo, e il risultato non può che essere un personaggio comico, se pur dal retrogusto drammatico. Zazie, infatti, non è soltanto una ragazzina irriverente e dalla risposta spigolosa, ma una bambina cresciuta troppo in fretta e a cui le amarezze della vita sono già tutte svelate.
Il caos generato dai capricci di Zazie e dai personaggi che si affollano in una specie di vortice attorno al piccolo personaggio principale in blucìnz, è intrappolato da Queneau in una circoscrizione spaziale e temporale ben studiata, e che dona unità al romanzo. Riprendendo il modello della letteratura epica di stampo aristotelico, l’autore fa in modo che tutta l’azione si svolga in un’unità spazio-tempo ben precisa: Parigi, nell’arco di una giornata.
Il cuore dell’azione è dunque il giorno successivo al pomeriggio in cui la madre di Zazie affida la piccola allo zio Gabriel e precedente alla mattina in cui lo zio riconsegnerà la bambina al genitore. Tutto ciò che accade nelle ventiquattrore centrali del romanzo suscita reazioni contrastanti nel lettore – riso, compassione, orrore, curiosità – poiché la vera abilità di Queneau è quella di riadattare una storia triste e renderla una commedia in vero stile français.
Esattamente come avviene nelle fiabe, in cui le paure dei bambini vengono esorcizzate grazie alla morale finale, il romanzo di Queneau esorcizza la tristezza con un susseguirsi di paradossi e comicità. E proprio come nelle fiabe, qualcosa di magico accade: i personaggi si trasformano, si innamorano, si contraddicono, e un’euforia generale trascina tutti indistintamente.
Lo zio Gabriel, grosso e burbero, di sera indossa il suo tutù e s’imbelletta come una vera ballerina per il suo spettacolo di danza al Mont-de-piété; suscitando tra i più il sospetto che sia un ormosessuale, per dirla alla Zazie. L’inacidita vedova Mouaque si innamora dell’enigmatico Trouscaillon. Le contraddizioni si susseguono senza sosta e Queneau non cerca di mascherarle, piuttosto, esse diventano la sua battuta umoristica sull’ambivalente natura dell’uomo e delle cose. Fin dalla prima pagina ai ceffoni e ai tafferugli, si accompagnano momenti di giubilo e festosità, fino a giungere all’epico banchetto finale con zuppa di onions per tutti, anch’esso, ovviamente, conclusosi in rissa. Lo stesso titolo dell’opera è una contraddizione, poiché per tutta la storia Zazie non prenderà mai il metrò.
Anche la bella Parigi del secolo scorso non è immune da tutto questo muoversi e trasformarsi. Ad esempio, quando, nella confusione generata da un gruppo di turisti impazziti, la Camera di Commercio diventa la Saint Chapelle, o quando i personaggi sono continuamente in disaccordo sui nomi dei monumenti o delle strade che li circondano.
La confusione sui luoghi è un ulteriore artificio stilistico dell’autore, che, in questo modo, crea maggiore distacco tra l’invenzione letteraria e la concretezza della città e delle sue strade, conferendo alla scena una componente onirica e fantastica. Il lettore sa di essere a Parigi e sa che le avventure e disavventure dei personaggi sono storie comuni, che possono capitare a chiunque, ma – e questa è la vera magia di Queneau – in questo romanzo la prosaicità della vita vera si stempera con il surrealismo del sogno.
Anna Fusari