Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
Quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.(Salvatore Quasimodo, Giorno dopo giorno)
Quando Salvatore Quasimodo scrive questi versi, l’Italia, L’Europa erano appena uscite dall’orrore della seconda guerra mondiale. Eppure quella immutabilità della natura umana che il poeta denuncia con tanta lucidità è viva fin dentro la nostra quotidianità, fatta di benessere, di guerre lontane, di stragi che non sentiamo riguardarci, in generale, di un male che in fondo crediamo non appartenerci.
E la pietra, la fionda, la carlinga con le sue meridiane di morte, il carro di fuoco, le forche, le ruote di tortura risuonano come strumenti della colpa, della barbarie del passato di fronte alla falsa tranquillità e alla ancor più finta civiltà del presente. Un presente che, invece, allora come oggi odora di sangue, di violenza, di sopraffazione, perché la tragedia che ci sovrasta è legata, come scrive Quasimodo, alla costatazione che il progresso raggiunto ci abbia anestetizzati rispetto al male, al punto tale che la nostra scienza è scienza “persuasa allo sterminio, senza amore, senza Cristo”.
A nulla ci serve il tempo, che scorre sulla stabilità dell’indole umana, senza avere nessun tipo di azione corrosiva, salvifica, purificatrice. E Caino torna ad alzare la mano contro Abele, ogni giorno, tra la violenza degli esecutori e l’indifferenza degli spettatori.
Perché nulla è scandalo. Perché nella relatività del pensiero moderno anche il male non ha più un peso specifico. Sì! Deve essere così: il male ai nostri occhi non è più un’identità riconoscibile, per lo più viene da fuori, è qualcosa che sentiamo microcosmicamente come esterno all’uomo, macrocosmicamente come un fenomeno importato. E, invece, non è una realtà né esterna né aliena.
Il male è dentro.
Dentro le parole della consigliera leghista Dolores Valandro – «Ma mai nessuno che se la stupri, così tanto per capire cosa può provare la vittima di questo efferato reato?» – all’indirizzo del ministro Cècile Kyenge, per le sua battaglie di civiltà sui temi dell’immigrazione e dell’asilo, evidentemente non condivise dalla Valandro, che è tra quelli che vedono il male come un agente esterno, proprio mentre nella stessa giornata si legge di un’altra notizia, quella del pestaggio di una giovane albanese, Tosca Xhuli, il cui male invece ha il volto dell’Italia.
Il male è dentro.
Dentro le scelte di ogni giorno, come è accaduto in Calabria dove un giovane calciatore ha investito un ciclista ed è scappato cercando di nascondere le tracce della sua colpevolezza o come, invece, si è verificato in Sicilia, dove ancora una volta si perpetuano scempi ambientali.
Il male è dentro.
Dentro la mente, dentro le mani che uccidono: ce lo racconta il cadavere di una giovane donna ritrovato in uno scatolone sotto un cavalcavia di Foligno.
Il male è dentro. Dentro la nostra storia, dentro il nostro presente, dentro il nostro futuro. Quasimodo scrive: “Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue”. Ma i figli dimenticheranno il male da cui vengono? Le prossime generazioni sono già marchiate? Chiedetelo ai ragazzini di Pescara che hanno aggredito un coetaneo, al tredicenne che ha ucciso la sorellina di 5 anni, al liceale bocciato per cattiva condotta che entra a scuola col fucile. Chiedetelo a loro, chiedetelo a voi stessi.
Nessuno tocchi Abele!
Maria Mancusi