Le recensioni di Connessioni Letterarie
L’aria di montagna investe le narici di Elliot, il protagonista di questa storia, che si abbandona a un profondo e liberatorio respiro. Comincia così Il tempo che non c’è, opera prima di Riccardo McOtter, che nel suo blog si definisce scrittore a tempo pieno. Una penna itinerante, la sua, poiché per quattro anni, dalla primavera del 2010 al 2014, ha vissuto in maniera quasi continuativa in un camper. La risoluzione di abitare in un mezzo a motore, di sentir periodicamente scorrere la geografia sotto i suoi piedi, è sorta in seguito al terribile sisma che, il 6 aprile 2009, si è abbattuto sull’Aquila (sua città natale), consegnando alla cronaca uno degli episodi più strazianti di quell’anno. L’autore, che dei devastanti effetti del terremoto ha risentito in prima persona, rimanendo da un giorno all’altro senza casa e senza lavoro, si è visto di fronte a un bivio cruciale; uno di quegli episodi esistenziali dove la scelta o l’abbandono di una via rappresentano un punto di non ritorno.
E così è stato, naturalmente. Riccardo McOtter ha preso la sua decisione: inseguire lo scopo della sua vita, ossia raccontare storie, anche se questo avrebbe significato percorrere una strada meno confortevole dal punto di vista economico e professionale. Il tempo che non c’è, scritto «osservando qualche pezzetto di mondo dalla finestra del mio camper», per usare le sue parole in appendice al romanzo, è il frutto dell’esperienza profonda e introspettiva che solo i veri viaggi donano.
Anche questa storia, quindi, non poteva che incominciare con un viaggio: Elliot, giovane ingegnere dal carattere un po’ introverso, organizza una gita in montagna insieme agli amici Ray e Cyril. Dopo aver attraversato alcuni sentieri si trovano di fronte a una cascata, il cui getto violento, per ragioni inspiegabili, si estingue all’improvviso, rivelando una feritoia tra le rocce che orlano lo specchio d’acqua. I tre compagni decidono di avventurarsi nella grotta, percorrendone il corridoio non senza una certa esitazione. Dall’altra parte, oltre la soglia della luce, si apre una boscaglia di abeti: è l’ingresso di un mondo nuovo, abitato da una comunità di ragazzi che ha scelto di vivere (almeno in apparenza) autogestendosi, senza regole, cristallizzata in un eterno presente fatto di divertimento, spensieratezza, pulsioni creative. Un mondo che, unico principio in vigore nell’anarchia generale che investe ogni cosa, dagli edifici all’abbigliamento, bandisce l’uso degli orologi: nessuno strumento di misurazione del tempo può governare la realtà di questi ragazzi.
Ciò che comunemente definiremmo tempo, insieme ordinato di numeri che riducono le nostre giornate a una somma di compiti da svolgere, è un concetto esiliato dalla loro società e dipinto come una sorta di demone che signoreggia su una terra remota. A quel luogo, opposto e antitetico, su cui esistono solo leggende perché quasi nessuno di coloro che vi si sono avventurati ha fatto ritorno, i ragazzi guardano con sgomento e sospetto, preoccupati di difendere la propria eterna, inconsapevole felicità. Un male oscuro, tuttavia, si è da tempo impadronito della loro innocenza: un’ombra di inquietudine che genera malessere, scolorisce la vita, e porta alcuni di loro sulle tracce del luogo misterioso, chiamato Piramide. Elliot, Ray e Cyril, fatti prigionieri dai ragazzi, cercano di integrarsi, ognuno per conto proprio, in questa società assurda e caotica, stringendo legami decisivi.
La passione di McOtter per la narrativa fantastica trasuda dalla sua penna, che, con uno stile semplice ma raffinato, costruisce un piccolo universo dalle tinte distopiche dove si intrecciano le vicende di personaggi dal profondo spessore psicologico, fino alla sconcertante, inattesa rivelazione conclusiva.
Come suggerisce il titolo del romanzo, il tempo, la sua percezione, l’impatto che ha sulle vite di Elliot e dei suoi amici, è l’invisibile padrone della scena. I ragazzi non vengono neppure sfiorati dal suo tocco che degrada ogni cosa; si rifiutano di accettarlo, vivono assecondando i propri istinti. Essi scelgono di mettere al bando ogni possibile percezione del futuro, sequestrano gli orologi e li chiudono in un cassetto come a voler tenere sigillata la necessità di crescere. Dall’altra parte, nella città identificata come “Piramide”, organizzata ed efficiente, che guarda con una punta di compassione al sistema caotico e senza regole dei ragazzi, il tempo ha un valore quantitativo. Le persone si affrettano ovunque, incalzate dai meccanismi della routine giornaliera, in cerca di fama. Inseguono lo spettro del futuro fin quasi a dimenticarsi di vivere, con conseguenze fatali. Metafora del nostro mondo, della nostra quotidianità che di quotidiano ha ben poco, per noi “adulti” impegnati a fare del presente in cui viviamo un groviglio di progetti di vita e aspirazioni spesso frustrate.
Impossibile non leggere nei paragrafi che compongono questo romanzo, attraverso l’espediente narrativo, un invito a riflettere su quanto il mostro del tempo, ovvero l’ossessione per il futuro, ci renda spesso e volentieri schiavi di noi stessi. A volte è necessario, proprio come ha fatto l’autore con la decisione di vivere in un camper, scegliere di seguire l’istinto, anche se questo sembra portarci lontano dagli schemi che il tempo governa, dalla seduzione di un posto comodo e sicuro in società, al prezzo del nostro benessere interiore.
Occorre trovare il coraggio di difendere la nostra identità, un altro dei temi forti che emerge, con l’impatto di una bomba atomica, solo nella parte conclusiva dell’opera, senza per questo passare in secondo piano. Capita, infatti, che per paura di sbagliare o tradire l’immagine che il mondo ha di noi, sacrifichiamo il nostro vero io e scegliamo di abbracciare sogni e desideri che non sono davvero nostri, vivendo una vita incolore, nel rimpianto o nella malcelata attesa di un cambiamento. Elliot sarà chiamato a una decisione di questo tipo: difendere il suo vero io o adattarsi, per sempre, alla volontà di qualcun altro.
E noi? Siamo stati, saremo capaci di proteggere la nostra identità? Se McOtter non avesse avuto il coraggio di imboccare la via della scrittura, una volta giunto al bivio, forse oggi non potremmo leggere Il tempo che non c’è.
E di certo ci mancherebbe qualcosa; qualcosa di importante.