La parola selfie, introdotta lo scorso agosto nel Oxford Dictionaries, individua una nuova pratica sociale legata all’affermarsi dei social media “una fotografia che uno scatta a se stesso, in genere con uno smartphone o una webcam e che viene caricata su un social media”, in poche parole un autoscatto condiviso.
Letteralmente selfie significa autoscatto. Uno sguardo, un sorriso, un volto gioioso, un piede filtrato dal mare, un gustoso risotto mangiato al ristorante, un nuovo oggetto comprato per la propria abitazione. Queste e molte altre sono le foto che ogni giorno gli utenti dei social network pubblicano sui propri profili per rendere gli altri testimoni della propria vita.
L’autoscatto prima era una pratica legata ad un ambito strettamente privato: le immagini, spesso sovra esposte o fuori fuoco, frutto della necessità di assecondare il proprio narci erano relegate in un cassetto o nelle memorie dei computer. Oggi con lo sviluppo dei social network e la diffusione di tablet, smartphone e servizi di condivisione delle immagini, gli autoscatti vengono alla ribalta. La presenza della fotocamera frontale, che permette di ottenere un’inquadratura e una messa a fuoco perfetta guardandosi nello schermo, agevola la creazione degli autoritratti. E così dal ragazzino alla celebrità tutti si immortalano con i propri device per mostrarsi attraverso i social network. Sembra quasi diventata una mania, un comportamento sociale, una dimensione antropologica.
Gli autoscatti hanno stimolato sociologi e antropologi su questioni come il narcisismo, la rappresentazione, la bellezza, la necessità di apparire. Il punto centrale di questa riflessione è la condivisione delle immagini che vengono rese pubbliche per testimoniare di aver partecipato a un evento, per mostrare agli altri la solidità delle proprie relazioni, per ottenere conferme e rassicurazioni, per documentare la propria vita lasciando una traccia di sé agli altri.
Nel bene o nel male i selfie raccontano il nostro presente, un presente liquido come direbbe Baumann, narcisistico, superficiale, instabile come le foto pubblicate che viaggiano nella rete.
Foto prive di quello che Roland Barthes in La camera chiara definisce punctum, quella parte anche marginale dell’immagine che apre uno spiraglio all’emozione, al ricordo, alla comprensione. Un’attenzione che dovrebbe essere attiva in ogni momento che oggi si è modificata come testimoniano le sequenze di immagini presenti nei social network talvolta omologate e fredde. La rapidità imposta dalla tecnologia alla portata di tutti induce a pensare che anche il racconto della nostra vita debba essere consumato all’istante. E così le immagini che ogni giorno vengono caricate nella rete producono una grande memoria digitale dove le singole memorie personali si fondono in un universo immateriale di immagini che non permette necessariamente di recuperare il contesto in cui l’immagine si è sviluppata.
Ci si chiede dunque: a che serve conservare la traccia di un piede filtrato dall’acqua, di un gelato al cioccolato, di un pollo arrostito? Forse oggi anche questo è il presente.
Forse è questo il nostro diario visivo, un nuovo modo di celebrare la nostra passeggera esistenza per testimoniare di essere stati su questa terra.
Tonia Zito
Immagine di Leprekon