In questi giorni il “caso Boateng” ha riacceso le polemiche intorno al calcio. I cori razzisti rivolti al centrocampista del Milan dalla tifoseria del Pro-Patria, durante l’amichevole disputata con gli undici di Allegri, hanno evidenziato l’infelice legame tra sport e razzismo o, se si preferisce, tra sport e violenza. La differenza mi è sempre parsa labile.
Sorvolando sulla riprovevolezza di un “certo” modo di partecipare alla contesa sportiva, per cui ormai una “certa” aggressività nei confronti dei sostenitori della squadra avversaria sembra non scandalizzare più nessuno ed essere entrata nel prototipo standard del “tifoso”, ringraziamo Boateng.
Eh sì, perché con il suo gesto di risposta ai “buuuu” intonati contro di lui ci ha dato la possibilità di affrontare la questione alla maniera tutta italiana, e non solo, della polemica. I media hanno tenuto distratta e impegnata l’opinione pubblica per qualche giorno e con i più disparati corollari all’argomento: dal biasimo per la reazione del calciatore che avrebbe in risposta scagliato la palla all’indirizzo di chi lo insultava, ai provvedimenti che la Figc sarà chiamata a prendere o che poi, passata la situazione cogente, dimenticherà di prendere, alla presenza all’interno del gruppo di tifosi dell’assessore allo sport di Corbetta, Riccardo Grittini , di cui accertata la responsabilità, si spera, verrà messa in discussione la carriera politica.
Si è detto tutto, si è detto tanto.
Quello, però, che amareggia è la vacuità e l’irrisolutezza del non saper-poter-voler concretizzare nulla. Perché? Perché tra qualche giorno di questo episodio non si ricorderà più nessuno e dei tanti altri che vengono perpetrati nel silenzio delle vite delle persone comuni non parlerà mai nessuno.
Ancora una volta quella che poteva essere un’occasione per virare rotta concretamente sarà stata sprecata. O forse peggio. L’accaduto verrà strumentalizzato, come già è stato fatto, e imputato a una sorta di ingiustificabile e incomprensibile legge del calcio per cui vi sono squadre a cui tutto è permesso e contro cui tutto è sanzionato. E allora i cori razzisti degli uni saranno paragonati a quelli degli altri, la reazione di un offeso a quella di un altro, generando un vortice di giaculatorie tra chi ha offeso più e chi meno.
Come se il male si potesse misurare. Come se il razzismo procedesse per gradi.
Mi piacerebbe si cominciasse a considerarlo, invece, in senso assoluto, perché solo allora si vedrebbero nitidamente i germi di intolleranza che disseminiamo ovunque e quotidianamente.
Nel passeggero di colore diverso accanto a cui abbiamo evitato di sederci.
Nel grasso che abbiamo ridicolizzato.
Nel brutto che abbiamo preso in giro.
Nei portatori di handicap che abbiamo compatito o che non abbiamo voluto nelle classi dei nostri figli.
Nelle politiche che individuano l’extracomunitario come il nemico.
Nelle donne che maltrattiamo, sfruttiamo, declassiamo.
Nell’abbigliamento, nei modi di fare, nelle espressioni di pensiero che vogliamo cambiare e giudicare.
Negli omosessuali che perseguitiamo.
Nella cordialità del sud che altrimenti significa “fannullaggine”.
Nelle possibilità del nord che altrimenti significano “freddezza ed egoismo”.
Nella selezione delle amicizie per cultura, censo e provenienza.
Nel lavoro da non scegliere perché non si adatta a una certa estrazione sociale, nella disomogeneità degli stipendi in base a sesso, razza.
Ma si sa l’Italia non è un paese razzista. E il “caso Boateng” è solo un episodio isolato, imputabile a responsabilità soggettive, forse. Sono questi i razzisti! Quelli che scelgono di esserlo. Gli altri, quelli che lo sono per caso, no. Noi tutti, no!
L’Italia non è un paese razzista. L’Italia è il paese dell’accoglienza… E quanto razzismo c’è dietro questa consapevolezza?
È il 1936 quando Adolf Hitler vuole che le Olimpiadi svoltesi a Berlino diventino una cassa di risonanza per propagandare la superiorità della razza ariana. Ma è Jesse Owens, uomo nero, a dimostrarsi il più veloce del mondo. Nemmeno un dato di fatto disarmò la demenzialità di certe teorie.
Oggi nulla è cambiato, in Italia come nel resto del mondo, ed è pertanto indubbiamente vero che “esiste una sola razza: l’umanità”. Purtroppo non nel senso in cui si auspicava Gandhi.
Maria Mancusi