Erano venti giorni che aveva piovuto ininterrottamente. Magari non proprio senza nemmeno un’interruzione ma, camminando ora per la prima volta con la lente del mio obiettivo libera dalle gocce d’acqua, sentivo finalmente concluso il periodo continuo con cui avevo fino a quel punto convissuto. Il cielo era un foglio di carta di riso, bianco sporco e increspato da nuvole che in blocchi solidi e compatti non facevano trapassare nemmeno un raggio di sole. È la luce morbida, come la chiama Ansel, quella che diffonde le ombre fino a quasi farle svanire. – Ma non solo, attenzione! – gli sento urlare da qualche parte nella mia testa. Certo, non solo.
Ansel è il mio maestro di fotografia, non credo sia davvero un tipo capace ma mi costa solo quindici euro a ora, il caffè nel break è incluso e inclusa è anche la scusa che da quando frequento il corso mi solleva dall’impronta del mio corpo stampata sul divano.
«Esci a fare foto?» mi ha chiesto Paolo stamattina.
«C’è la luce morbida oggi, è una buona occasione» gli ho risposto.
«Ti accomapagno, voglio fare due passi».
Paolo è il mio compagno, non credo mi ami molto ma sono quindici anni che stiamo insieme, il caffè la mattina è meglio berlo in due e in due è anche meglio fare le passeggiate, di domenica.
«Mi dispiace per la maglietta» gli ho detto vedendolo infilare la sua vecchia t-shirt degli Across, la sua vecchia band. Di solito mi capita sempre di aprire lo sportello del forno troppo presto e le mie torte, fino a quel momento gonfie come il petto di un piccione in amore, fanno fuuuuuuuuu, si afflosciano e diventano blocchi di gasbeton con cui non si può costruire nulla. Mi dispiaceva davvero per quella maglietta, un altro mio guaio, una distrazione. Credo che la colpa sia stata di un calzino scuro finito dentro i panni bianchi per sbaglio o magari lasciato nel cestello dallo scorso lavaggio e lì dimenticato. Fatto sta che la mia biancheria aveva aggiunto una sorta di filtro fotografico al suo bianco di partenza e tutti gli indumenti, compresa quella maglietta, avevano assunto un colore spento, grigiastro. Quando ho ammirato tutto il bucato steso, anche allora mi è tornata in mente la voce di Ansel: Ma non solo! La luce morbida rende meno vividi i colori e appiattisce le tinte, fate attenzione! Certo, c’è da dire che è un grosso errore di marketing quello di utilizzare per una band metal delle magliette di colore bianco, ma a Paolo questo non credo lo rinfaccerò mai.
«Cosa vuoi fotografare?» mi chiede adesso mentre infagottati nei cappotti e nelle sciarpe, fuori dalla porta di casa, ci rendiamo conto di non saper dove andare. Onestamente questo suo voler venire con me, quella mattina, mi aveva spiazzato. Anche se ho detto che passeggiare in due è un valido beneficio delle unioni, c’è da dire che da un po’ non ne usufruivamo. Certo, come ho già detto, pioveva anche da venti giorni ininterrottamente (e se non proprio, quasi).
«Pensavo di andare al parco, magari ne esce qualcosa di artistico… i piedi nel terreno, le foglie autunnali, quelle cose là».
«Perfetto».
Camminando in silenzio – è tra i vantaggi di un rapporto di lunga durata – ci dirigiamo al parco che invece, carico di suoni, esplode di grida e parole. Prendo la macchina fotografica dallo zaino e la metto al collo, tolgo il tappo dall’obiettivo e mi sento pronta a imprimere il mondo sul mio sensore. Paolo mi segue, sempre in silenzio, le mani dietro la schiena e il naso verso le nuvole.
Procediamo in linea retta, a zig-zag, passando a destra, poi a sinistra, rispettando le stradine, scavalcando le aiuole, sul cemento, sul prato, sulle foglie secche che – per la cronaca – sono già marce e per nulla fotogeniche. I bambini lasciati scorazzare all’aria ci girano intorno, saltano, corrono, urlano. Invisibili passiamo come fantasmi tra di loro, tra i loro genitori, tra i cani che inseguono la palla.
«Quindi?» mi domanda all’improvviso.
«Fin qui nulla di interessante» devo ammettere.
Continua a guardare in alto e le sue mani rimangono strette tra loro dietro la sua schiena.
Spontaneamente, gratuitamente, genuinamente mi assale un sentimento di insofferenza.
«Quindi» dico scandendo ogni singola e maledetta lettera, «possiamo pure tornarcene a casa».
A passo veloce, che fa bene, come dicono in televisione, inizio il mio accigliato ritorno che sarà, immagino, a base di elaborati discorsi mentali che vorrei ma non farò mai.
«Ehi ma dove vai? torna qui» mi dice lui, mani dietro la schiena, fisso dove l’ho lasciato, con una voce dal tono scocciato ma anche colpevole. Senza fermarmi mi volto di scatto con già in mente il primo verso della mia catilinaria ma non faccio in tempo ad urlare «E COSA ALTR…» che, tonf, mi ritrovo faccia a terra, su quelle belle foglie secche che ora vorrei solo bruciare in un gigantesco falò.
«Scusi signora», mi dice un mocciosetto con il naso screpolato, i vestiti sporchi di fango e un pallone da calcio in mano.
«Ma che…?»
«Ho lasciato la zaino a terra per fare la porta! ti sei fatta male?»
Guardo il fagotto distante pochi centimetri dalle mie gambe stese e rielaboro la dinamica degli eventi. Poi guardo la pelle secca del suo naso e lo rincuoro dicendo che no, non mi ero fatta male.
«Tutto bene?» sento dire da Paolo dietro le mie spalle.
«Si. Andiamo a casa» lo imploro.
«Ok».
«Si è incrinato l’obiettivo, guarda» gli dico mostrandogli la crepa che in un angolino come una ragnatela si dirama sul vetro della lente.
«Lo facciamo aggiustare, non prenderla a male».
Sulla strada di casa non elaboro nessun discorso, nessuna invettiva, non penso – forse – proprio a nulla.
Anzi, forse penso al bucato fatto male e alle torte implose su se stesse e gettate via.
Da quel torpore mi risveglio all’improvviso, sentendo uno strano calore sulla schiena. Il sole era uscito da uno strappo formatosi tra le nuvole e illumina la strada che costeggia il canale su cui, me ne rendo conto solo ora, stiamo camminando. La luce si riflette sull’acqua e nasconde, come fosse un coperchio luminoso, tutto lo schifo che c’è sotto, i sacchetti, le cartacce, le bottiglie, la schiuma bianca. E la gramigna tutta attorno è satura di verde, gli alberi suonano con quel po’ di vento che arriva tra le foglie, le antenne televisive sono lontane e si vedono e non si vedono perché chiudo gli occhi che iniziano a farmi male. Riporto lo sguardo sulla strada. La mia ombra si allunga sull’asfalto mangiucchiato di questa stradina pedonale, passa sui buchi, sulle scritte a spray, sulle radici che si alzano dal suolo. Lei, più bella di me, con le gambe così longilinee, slanciate, il collo lungo, affusolato. E accanto alla mia, l’ombra di Paolo; anche i suoi difetti come i miei non ci sono, sono da un’altra parte adesso. Camminiamo e vedo le nostre ombre così belle scivolare così elegantemente su tutto. Penso che dovremmo tornare al parco e andando fermarci a comprare una bottiglia di vino al primo bangla, buttarci sul prato, raccontare, raccontare. Allungo le mani e le braccia in maniera tale da toccare con la mia la sua ombra e mi sento così tanta tenerezza nel cuore. Da bambina, quando mi appariva per strada, cercavo di pestare le gambe della mia ombra per essere più veloce di lei e allora camminavo così velocemente, ma così veloce da farmi venire il fiatone, senza ovviamente raggiungerla mai. Ora con calma la osservo, lei così bella distesa per strada e io che cerco di camminare con un movimento tale da renderla ancora più sinuosa. Allungo la mano verso l’ombra di Paolo e provo ad afferrarla, poi provo a spingermi di più e penso che dovrei prendergliela davvero la mano.
Erano venti giorni che aveva piovuto ma oggi con il sole è tutto perfetto e io vorrei camminare per ore, finché non ci coglie il buio e solo allora tornare a casa, magari guardare un film e poi dormire pensando, prima di chiudere gli occhi, che quella era stata proprio una bella giornata e che ero contenta, Paolo, di averla passata con te.
Guardando le nostre ombre cerco la sua mano e allungo la mia per afferrarla. Lui non si accorge di nulla, continua a camminare, probabilmente guarda con il naso in alto, qualcosa che io non so.
Le nostre ombre sbiadiscono.
Passa una nuvola e tutto scompare.
Elettra Bernardo