Racconti d'autore

Nella mente di Butterfly – Parte finale

Scritto da Ivan Bececco

 

– Ehi, voi, andate a prendere due sedie – fece Eschenwood, rivolto alle guardie del corpo appoggiate distrattamente alla porta d’ingresso. L’obiettivo della telecamera sorvegliava l’ambiente ruotando a destra e a sinistra ed emettendo un sinistro ronzio.
Gli omaccioni rientrarono pochi istanti dopo con quanto Mike aveva loro chiesto. Lo scienziato invitò Thomas a sedersi e lui fece altrettanto, passandosi una mano sulla fronte per cercare di mantenere un certo equilibrio interiore. La sua espressione era tesa, la pelle un lenzuolo bianco increspato di piccole rughe. Cominciò a parlare con lo sguardo affondato nelle mani, per poi sollevare lentamente la testa. Anche Miyuki appariva preoccupata.
– Non so di quale incidente ti abbia parlato Earle, ma ti assicuro che l’ultima cosa che devi fare è fidarti di quell’uomo.
– Non mi fido di nessuno, qui dentro – rispose Thomas con voce neutra.
– Di noi sì – gridò Mike, afferrandogli una spalla. Thomas sussultò, allungò di scatto il braccio sinistro per prendere la pistola, ma Miyuki riuscì a intercettarlo. Bloccò la sua mano a mezz’aria, a pochi centimetri dall’arma che premeva fredda contro la pelle del ragazzo. Una delle due guardie accorse e recuperò la pistola, sfilandogliela dai pantaloni. – È meglio se la tengo io – borbottò; e Thomas poté sentire la sua voce, così poco abituata a manifestarsi al mondo esterno, per la prima e unica volta.
– Stiamo calmi, ok? – disse Miyuki, allentando pian piano la presa per poi lasciare la mano del ragazzo. Thomas fu sorpreso dall’intensità della sua stretta. Era come se gli avesse scheggiato le ossa senza però fargli male sul serio. Mike fece un respiro profondo e si sistemò sulla sedia.
– Ti chiedo scusa – proseguì Eschenwood. – Come avrai notato, siamo parecchio agitati. Il fatto è che Earle ha preso il controllo di quasi tutto l’Hub, e noi siamo l’ultima sacca di resistenza a questa specie di dittatura che ha instaurato qui dentro. La gente usava gli Oniria per divertirsi, per cercare un’evasione dai problemi della vita vera, e adesso si ritrova inconsapevolmente schiava del suo volere. La MindLab era nata con uno scopo nobile, ma Earle ha rovinato ogni cosa. – Non appena finì la frase, scoppiò in lacrime. Sulle sue tempie si gonfiò un piccolo reticolato di vene pulsanti e il suo volto si fece scuro come la notte.
– Schiava! – esclamò Thomas, attraversato da un brivido elettrico. –C-cosa vuol dire esattamente?
Fu Miyuki a parlare. – Cerchiamo di fare ordine, d’accordo? Thomas, conosci la storia della MindLab?
– Sì, Butterfly me ne ha parlato. Mi ha raccontato della sua fondazione da parte di… Earle, cioè lui stesso, a quanto ho capito; di M-Mike Eschenwood, Johnatan Torvald e Alfred Stenway, se non ricordo male. Mi ha detto dell’incidente del 1988, durante la prima fase di sperimentazione dei Dreamronment. Poi mi ha parlato della nuova fondazione dell’azienda, in Cina, un paio di anni dopo. Mi ha raccontato del processo per omicidio, delle condanne che ci sono state in seguito a quell’episodio terribile. Io non capisco come sia possibile tutto ciò; non mi rendo conto di stare sognando, e soprattutto non trovo il modo di uscirne. Credo di far parte di un incubo senza fine, come in un film. Possibile che là fuori, in quello che chiamate Mondo Conscio, ci sia io che sto dormendo con un casco in testa, e che non esista nessun modo di far sapere al mio io che è ora di tornare coscienti? Che diavolo sta succedendo?
– Le cose sono andate un po’ diversamente rispetto a quello che ti ha raccontato Butterfly, cioè Earle, uno degli ideatori del progetto MindLab, come hai appunto constatato. C’ero anch’io tra i fondatori, ed ero l’elemento più anziano del gruppo. Io, Alessia Foster, conosciuta qui dentro come Miyuki Jones. Mi occupavo di programmazione insieme a Stenway, insieme scrivevamo il programma per permettere ai Dreamronment di funzionare. L’idea alla base della nascita della MindLab era grandiosa: dar vita a una comunità umana all’interno di un ambiente virtuale, per permettere a quanti avessero voluto farne parte di incontrare persone provenienti da tutto il mondo, condividere idee, pensieri, stringere legami. Una specie di Facebook ante litteram, per così dire. Di sicuro, a questa idea rivoluzionaria non sarebbe corrisposta una realizzazione altrettanto efficace, perché non avevamo i mezzi per svilupparla; ma all’epoca non potevamo saperlo. E non l’avremmo mai scoperto, dato che Earle Wallace decise di scappare in Asia con il progetto. Doveva avere qualche aggancio a livello governativo, qualche pesce grosso che ha fiutato i possibili risvolti politico-militari della faccenda e gli ha staccato un assegno in bianco per potersi procurare gli strumenti necessari alla sua attuazione. La MindLab è stata fondata ufficialmente là, i software sono tutti made in China, e oggi l’ambiente virtuale entro il quale lo stesso Wallace ha costruito il suo impero conta quasi tre miliardi di utenti.
– S-sta dicendo sul serio? – la interruppe Thomas, sconvolto. – Tre miliardi di persone?
– Tre miliardi, sì, più o meno. Quasi la metà si collega giornalmente, dopo aver assunto un farmaco chiamato Becessitoxinal che induce una qualità particolare di sonno, per così dire. Gli utenti recuperano la propria copia di backup del sogno effettuato nella sessione precedente e si dedicano alle attività che preferiscono. Il problema è che l’80, 90% di loro è vittima del soggiogamento mentale di Wallace. Quel pazzo, negli anni, ha messo su una specie di setta, radunando attorno a sé un numero sempre crescente di adepti a cui fare il lavaggio del cervello.
– Credo di essermi perso, non riesco più a seguirla – disse Thomas, quasi in un sussurro. – Se è vero quello che dice, perché Butterfly ha parlato di un processo? Ha detto che ci sono state delle condanne, c’è stato un omicidio. Questo non riesco a capire.
Eschenwood, che aveva ascoltato con attenzione, interruppe Alessia prima che potesse proseguire. – Se non ti spiace, adesso tocca a me. – Ora appariva un po’ più rilassato, per quanto potessero consentirlo le circostanze. Sui suoi occhi scorreva un punto di luce liquida: era il riflesso di un pallido sole, le cui scorie biancastre illuminavano debolmente la stanza seminterrata. – Non c’è mai stato alcun incidente, né tantomeno omicidi. C’è stato, sì, un processo. Tutti quanti noi ci siamo trovati in casa chili e chili di cocaina e, subito dopo, la polizia che bussava alla porta. È stato Wallace, quel figlio di puttana, a incastrarci. Abbiamo dovuto scontare dieci anni di carcere. Mentre eravamo dentro, lui costruiva la sua fortuna con il frutto di anni di lavoro. Il nostro lavoro. Una volta fuori, abbiamo fatto ricerche su questa fantomatica comunità nata e cresciuta in seno all’Hub e che prometteva una vita migliore per tutti, il potenziamento delle attitudini individuali, la condivisione, la scoperta di se stessi e cose di questo genere. Ne avevamo già sentito parlare in carcere. Si chiama “The wings of the butterfly” e, come avrai intuito, il nostro amico è a capo dell’organizzazione e delle sue ramificazioni. Edifici, locali, strutture ricreative, sono tutti di sua proprietà. Ogni settimana vengono organizzati incontri della durata di ore e ore, che hanno il solo e unico scopo di celebrare la sua persona. Lui, Butterfly, il fondatore, colui che offre la chiave per migliorare la vita di chi gli si affida, non solo dal punto di vista mentale ma anche, e soprattutto, sessuale. Uomini, donne. Bambini. È un pazzo, un frustrato, un insicuro, e sta diffondendo una vera e propria epidemia. Dobbiamo fermarlo, a qualunque costo.

 

Eschenwood si fermò per un istante, passandosi ancora una volta una mano sulla fronte. Thomas intuì che si trattava di un gesto abituale, per lui.
– Sembra tutto maledettamente assurdo – sospirò il ragazzo, con lo sguardo incollato al pavimento. – Quindi immagino non sia vera la storia dello scultore che uccide le sue vittime.
– Ovvio che non lo è. Earle ha sempre mal sopportato il fatto che sapessi dipingere e scolpire. È sempre stato un suo stupido pallino. L’invidia è un male terribile: non so se hai già avuto modo di scoprirlo, tu che sei ancora giovane. Un male che, se trova terreno fertile in cui attecchire, può dar vita a una pianta marcia. Wallace ha cominciato a spargere voci infamanti sul mio conto non appena ha saputo che io e Alessia ci eravamo iscritti alla sua piattaforma onirica, nonostante avessimo cercato di tenere nascoste le nostre identità usando pseudonimi al posto dei nomi veri; come del resto fa la maggior parte degli utenti. Deve aver fiutato qualcosa, qualche movimento strano in questa zona dell’Hub. Non ha mai voluto contrastarci apertamente per timore che il passato venisse a galla, ma stiamo per arrivare alla resa dei conti. Lo sa anche lui. L’aria si è fatta troppo pesante. Soprattutto, dobbiamo fare in modo di smantellare questa sua organizzazione criminale legalizzata.
– Che ne è stato di Torvald e Stenway? – chiese Thomas.
– Non hanno voluto unirsi al nostro gruppo di resistenza. Non sono mai riuscito a biasimarli fino in fondo. Dopo aver scontato la pena, hanno voluto cominciare una nuova vita da qualche parte, ben lontano da noi. Né io né Alessia abbiamo più avuto loro notizie.
– Avrei un’altra domanda – insistette Thomas, che, in capo a tutta questa storia, di una cosa in modo particolare non riusciva a darsi pace. – È vero che chi incontra la morte nell’Hub muore anche nel mondo reale? Perché i governi permetterebbero questa e altre cose al limite dell’assurdo, come l’assunzione di farmaci di dubbia legalità?
– Se è stato Earle a dirtelo, beh, in questo caso non ha mentito: morire nell’Hub significa andarsene per sempre. E comunque di illegale, in senso stretto, non c’è nulla. I governi lo permettono così come consentono a persone inesperte di guidare automobili che possono raggiungere i 300 chilometri orari, o di assumere droghe legalizzate come alcol e tabacco. Non ragionare da idiota, Sfrucugli: lo Stato dà alla gente quel che la gente vuole, e paga per avere. Soprattutto se chi fornisce certi servizi si assicura la compiacenza dei politici. Inutile dilungarsi in questioni simili, adesso. Il nostro problema è molto più concreto.
– Thomas, ti andrebbe di unirti al nostro gruppo di resistenza? – domandò Alessia con un debole sorriso disegnato sulla faccia. Anche lei appariva stanca, sfibrata da uno stato di allerta costante, con la sensazione di essere un agnello braccato nella tana del lupo e predestinata a quel genere di vita, senza una reale possibilità di sfuggire al morso del predatore. – So che la tua esperienza qui dentro è cambiata radicalmente e so quanto sarebbe difficile, per te, concederci la tua fiducia. Al posto tuo, mi troverei nella stessa condizione; però ti assicuro che il problema è molto grave e potrebbe facilmente diffondersi nel Mondo Conscio, quando la posizione di Wallace come leader dell’organizzazione si sarà consolidata. A quel punto, visto il suo coinvolgimento con certi ambienti della politica, anche la realtà potrebbe sprofondare nell’incubo. Ti va di unirti a noi?
Eschenwood si girò verso le guardie del corpo e fece loro segno di aprire la porta. Thomas intravide un oscuro corridoio, a destra del quale si apriva una rampa di scale che conduceva al piano terra, mentre in fondo si trovava un’altra porta. Disse al ragazzo di alzarsi e, insieme ad Alessia, si incamminarono verso l’ingresso di fondo. Al di là del muro si avvertiva in modo distinto il ticchettio di numerose tastiere martellate da dita esperte, insieme a suoni digitali di ogni tipo; qualche sporadico colpo di tosse era l’unico elemento che conferiva una patina di umanità a qualsiasi cosa si trovasse oltre la soglia.
Alessia bussò leggermente. Dopo alcuni secondi, la porta si aprì.
– Vi stavamo aspettando. È quasi ora.

Thomas si trovò di fronte a un’immensa sala completamente priva di finestre e di qualunque tipo di sistema di illuminazione. L’ambiente era rischiarato da numerose file di monitor accessi, che proiettavano bagliori dai colori slavati sul pavimento e su eserciti di facce tese e assorte. L’incessante ticchettio sulle tastiere nere si era fatto più forte, e somigliava alla marcia di un battaglione sopra una crosta di ghiaccio. Sulla parete di fondo campeggiava una lavagna bianca, scarabocchiata con istogrammi e incomprensibili ghirigori. Il ragazzo, ugualmente attratto per la curiosità e paralizzato dal terrore, ebbe l’impressione di trovarsi in qualcosa che somigliava a una base militare segreta.
Alessia e Mike cominciarono a parlare con il tizio che aveva aperto la porta, un ragazzo corpulento che indossava una felpa dei Joy Division. Quest’ultimo, accompagnandosi con ampi gesti delle braccia, stava dando spiegazioni agli scienziati, i quali a cadenza regolare manifestavano il proprio assenso. – Il momento è arrivato: quando volete, possiamo partire. Il virus sarà installato nei caschi degli utenti attualmente connessi all’Hub, eseguendo in automatico la procedura di logout dal portale e catapultando tutti quanti fuori. – Il ragazzo, nonostante cercasse di ostentare sicurezza con la voce, tradiva una palese agitazione.
– Ciò significa che verremo scollegati nello stesso momento, giusto? – domandò Alessia.
– Esatto. La falla principale di questo sistema è il firewall, che si riesce ad aggirare con una certa semplicità.
– Molto bene – fece Mike. – La seconda parte del piano?
Al tizio scintillarono gli occhi. – Una volta effettuata la procedura di backup forzato, il virus creerà una sequenza di duplicati delle pagine di accesso, in modo tale che chi dovesse tentare la riconnessione all’Hub verrebbe reindirizzato al sito creato da noi.
– Dove abbiamo pubblicato per filo e per segno tutto ciò che la gente deve sapere sul conto di Thomas P. Butterfly, ovvero Earle Wallace – osservò Alessia, rivolgendosi ora a Thomas. Intorno ai suoi occhi sorridenti si ramificarono delle piccole rughe. C’era un che di puro e impenetrabile in quello sguardo, qualcosa che, almeno all’apparenza, nessuno sarebbe stato in grado di portarle via. Era come se avesse una fiducia incrollabile in tutto ciò che vedeva. – Hai capito qual è il nostro piano? Per Wallace sarà la fine. Quello stronzo la pagherà cara.
Mike attraversò la sala portandosi in fondo. La sua figura si rimpicciolì progressivamente man mano che si allontanava, e il bianco dei suoi vestiti si accendeva mentre passava accanto alla luce dei monitor. Sembrava quasi un’entità soprannaturale carica di energia, un angelo pronto a dissolversi nell’istante che precede l’apocalisse. Il rumore delle tastiere cessò non appena fece un cenno col braccio. La stanza fu inghiottita da un silenzio soffocante.
Thomas e Alessia, dalla parte opposta della sala, osservavano la scena. Il giovane che, un momento prima, aveva illustrato i dettagli del piano ai due scienziati, era tornato a sedersi alla sua scrivania. Nessuno avrebbe potuto dire cosa passasse per le teste dei presenti, mentre attendevano che Eschenwood pronunciasse il suo discorso; nessuno, neppure loro stessi.
– Vi ruberò solo un momento di attenzione, anche perché il tempo non è più nostro alleato – esordì Mike, bianco e carismatico, quasi etereo. – Dopo anni di lavoro, quando tutto sembrava ormai remare contro di noi, eccoci qui nel giorno della resa dei conti. Oggi faremo cadere l’odiosa setta di Butterfly e libereremo tutti coloro che sono stati soggiogati. Quell’essere ripugnante, che ha infangato il nome e l’idea alla base del progetto MindLab, avrà finalmente ciò che si merita.
Il pubblico ascoltava. Qualcuno dalle retrovie provò ad accennare un applauso: il battito di mani stava per propagarsi in tutta la stanza, ma Eschenwood richiamò tutti all’attenzione ancora una volta.
– Vi prego, non perdiamo la concentrazione proprio adesso. L’ultima cosa che mi resta da dirvi è: grazie. Grazie per essere cresciuti in numero, per non aver abbandonato la nave, per aver compreso la pericolosità dell’uomo sotto il cui nome si è diffuso il peggior cancro che potesse infestare l’Hub negli ultimi dieci anni. Grazie, di nuovo. Dopo che avrò premuto il tasto Invio – proseguì – saremo disconnessi simultaneamente. Non so quanto tempo ci verrà o cosa succederà subito dopo, quando la gente scoprirà la verità sul conto di Butterfly. Quel che so è che, la prossima volta che ci incontreremo, questo sarà un posto migliore. Buona fortuna a tutti noi.
Mike Eschenwood si girò verso una piccola scrivania appoggiata alla parete, sulla quale era appoggiato lo schermo dalle cornici nere di un computer acceso. Il display mostrava una finestra di terminale con una sequenza di righe di comando già eseguite. Il cursore bianco lampeggiava a intermittenza in corrispondenza dell’ultima linea, dove era scritto sudo apt-get install final_ablution. Era come il battito di un’arteria fatta di pixel che attendeva di pompare il suo sangue purificatore.
Alessia e Thomas, dall’altro lato della stanza, trattenevano il respiro, in attesa del momento decisivo.
Mike appoggiò il polpastrello del dito indice sul tasto Invio. Era freddo.
Il tempo sembrò dilatarsi a dismisura.
I tecnici in prima fila furono i primi a rendersi conto che un piccolo petalo vermiglio era sbocciato sulla tempia destra di Eschenwood, e che un rivolo di sangue colò delicatamente fino a raccogliersi nell’incavo della sua guancia, contratta in un sorriso. Quell’espressione sollevata non si dissolse neppure quando crollò a terra, sbattendo il mento contro la scrivania e rotolando su un fianco.
Alessia lanciò un grido disperato. Tutti quanti si alzarono di scatto dalla scrivania, sconvolti, pietrificati, accartocciati da un dolore inatteso. Sebbene nessuno si fosse reso conto di quanto era appena successo, un paio di ragazzi ebbero la prontezza di accorrere al tavolo dove il computer centrale attendeva ancora l’ordine di esecuzione del comando. Tuttavia, un fischio aguzzo rasoiò le tempie di uno di loro e si abbatté proprio sullo schermo, causando un’esplosione dei circuiti interni. Il monitor si spense di colpo, i ragazzi si arrestarono e tutti, compreso Thomas, si voltarono indietro, confusi e incapaci di muovere un muscolo.

 

La porta era stata silenziosamente aperta, e quattro o cinque sagome nere approfittavano della penombra per tenersi celate agli sguardi terrorizzati. Due di loro impugnavano un paio di pistole silenziate, dalle cui bocche fuoriusciva una bava di fumo. Alessia riconobbe, esterrefatta, le due guardie del corpo che parlottavano con gli energumeni armati, scambiandosi cenni d’intesa.
– Devo congratularmi per la meticolosità con cui avete messo a punto questo brillante piano, Alessia. Non ci vediamo da un bel po’ di tempo, eh? Eri poco più che una ragazzina quando ci siamo conosciuti; adesso vedo le rughe sul tuo bellissimo viso. – Thomas non faticò a indovinare la voce di Butterfly. Non si vedeva nulla della sua persona, avvolta com’era nell’oscurità di quella porzione della sala, tranne lo scintillio sinistro dei suoi occhiali, come le iridi di un gatto catturate da una fotografia.
– Earle… Bru-brutto figlio di putt… – Alessia scoppiò in lacrime e cadde sulle ginocchia, agghiacciata dal terrore. Era come se le avessero prosciugato i muscoli , e non restasse che il suo fragile scheletro a sorreggerla.
– Su, su, non prendertela. Stavate per farcela, eravate a un passo dalla fine. L’importante è partecipare. Certo, se posso dire la mia, è un po’ sciocco credere che una misera telecamera collegata a un videocitofono possa funzionare come sistema di allarme.
Emerse a passi lenti dalla penombra. – Ma guarda che bel posticino abbiamo qui. Avete fatto le cose in grande! E dire che Marcus vi stava dietro da un pezzo, aveva scoperto il vostro nascondiglio, però non potevo certo immaginare che fosse così ampio e tanto ben attrezzato. – Uno dei tecnici fece un movimento brusco, a metà tra l’intenzione di fuggire e uno spasmo innescato dalla paura, e subito si ritrovò a tiro di pistola. – Non fare una mossa, o ti arriva un proiettile nel cervello – urlò uno degli uomini di Butterfly, con voce metallica.
Earle passeggiava tra i computer, andava avanti e indietro sbirciando i monitor. – Mi addolora doverti uccidere, Alessia Foster, perché ho sempre ammirato la tua intelligenza. Tuttavia non mi lasci altra scelta. – La donna piangeva disperata, in preda a un crollo nervoso. Uno scagnozzo di Wallace si avvicinò a lei e le indirizzò la sua arma. – Sappi che ho lavorato bene con te, e che ti stimo davvero – disse Butterfly, voltatosi ad assistere allo spettacolo. – Avanti, falla fuori.
Alessia cadde a pancia in giù, mentre una pozza di sangue si allargava sotto di lei. L’energumeno aveva fatto esplodere due colpi che le si erano conficcati nell’addome. Non ebbe neppure il tempo di esalare coscientemente l’ultimo respiro. Thomas era immobile, con la gola annodata e le mani invase di sudore. Sperò fino alla fine che Butterfly non si accorgesse della sua presenza, e quando quest’ultimo si girò verso di lui con un sorriso diabolico ebbe la chiara sensazione di non avere più sangue in corpo.
– A te penso io, – proseguì – piccolo bastardo traditore. Ti avevo offerto la possibilità di uscire vivo dall’Hub, dal mio Hub… ma l’hai buttata via, come un idiota. Molto bene, ognuno è artefice del proprio destino. Ah, portatemi quel vecchio parassita, voglio che assista alla morte del ragazzo perché sarà lui il prossimo.
La porta si aprì di nuovo. Un altro paio di uomini di grossa taglia entrarono trascinando di peso una figura ossuta, che Thomas riconobbe all’istante: era il vecchio alla reception del palazzo di Butterfly. L’avevano imbavagliato, legato e picchiato con una catena. Aveva il cranio ammaccato e, ovunque sul suo viso, macchie di sangue rappreso. Gli occhi devitalizzati guardavano ovunque, con cieca insistenza, alla disperata ricerca di qualcosa che potesse trarlo in salvo; ma, forse, non sarebbe più stato capace neppure di camminare. Dovevano averlo scoperto in compagnia di Eschenwood e Alessia; forse Butterfly era da tempo a conoscenza del suo doppio gioco. In ogni caso, il suo destino era segnato, e lui ne era inesorabilmente consapevole.
Thomas sapeva di dover tentare la fuga, ma sapeva anche che non sarebbe servito a nulla. Gli uomini di Wallace barricavano l’uscita; due di loro si aggiravano per le file di scrivanie con le pistole spianate, per evitare che a qualcuno venisse l’idea di fare qualcosa di inconsulto. Capì che era arrivato l’epilogo della sua esperienza all’interno dell’Hub, nonché della propria esistenza. Così presto. Il cuore pulsava impazzito.
Butterfly si portò a meno di venti centimetri dai tremiti del suo corpo. Era raggiante, la fronte calma come la superficie di un lago spazzata da un vento innocuo. Il vecchio, massacrato di botte, levò in alto il suo ultimo
sguardo sul mondo, le pupille gli si rovesciarono all’indietro, svenne. Thomas contemplò l’ombra della morte dietro la risata compiaciuta di Wallace.
– Fai buon viaggio, ragazzo.

 

***

 

– … Ragazzo! Ehi, ragazzo, svegliati!
– M… ma che diavolo succ…
La guancia sinistra a contatto con una superficie fredda, Thomas si tirò su di soprassalto. Era sdraiato su un pavimento di marmo rosa, e aveva il volto imperlato di un sudore malato.
– Ehi, ehi, fai piano. Come ti senti? Riesci a parlare?
Intorno a lui si era radunato un gruppetto di cinque o sei persone che lo fissavano con insistenza, cercando di capire se stesse per succedergli qualcosa di brutto o se il sangue fosse tornato a bagnargli le vene. Era bianco come un cadavere. Si sentiva la bocca impastata.
– Non lo so – biascicò a voce spenta. – D-dove mi trovo?
Il tizio che lo stava interrogando gli offrì il braccio per aiutarlo ad alzarsi, non prima di essersi assicurato che riuscisse a tenersi in piedi. Il resto del gruppo, dopo essersi sincerato che Thomas era vivo e intuito che non sarebbe successo più nulla di spettacolare, sciamò in direzioni diverse, tornando a occuparsi delle proprie faccende.
– Vieni, dai, siediti qua –. Fece accomodare Thomas su una panchina di marmo nero senza schienale addossata a una parete bianca. – Porca puttana, sei cascato di botto, come una pera. Per fortuna che sei caduto sulle ginocchia e ti sei sdraiato di lato, altrimenti ti saresti fracassato la testa.
– Non so davvero che dire – rispose Thomas. – Non ricordo nulla. E-ero qui in attesa del mio turno, poi c’è stato il buio.
– È successo tutto in una frazione di secondo. Meno male che hai ripreso subito conoscenza.
– Beh, sì, immagino che sia tutto a posto.
– Ah, ehm, ti è caduto questo dalla tasca dei pantaloni. Immagino sia roba tua.
Il giovane porse a Thomas un flaconcino di plastica arancione sigillato da un tappo bianco. Sull’etichetta, appiccicata al centro della confezione, era scritto, a caratteri cubitali, Becessitoxinal
– Ansiolitici, eh? Cavolo, sei giovane e già ti tocca prendere quella roba; ma, beh, in fondo non sono fatti miei.
Thomas gettò un’occhiata distratta al suo interlocutore per poi limitarsi ad annuire. Agitò il flacone, pieno a metà, e le piccole pillole al suo interno tintinnarono contro la plastica scheggiata. A un certo punto si rese conto che, per terra, a poca distanza da lui, c’era il suo telefono. Fece per alzarsi a recuperarlo, ma il ragazzo seduto accanto a lui lo fermò. – Tranquillo, lo raccolgo io.
Il display acceso segnalava una chiamata in corso. All’altro capo della linea, una voce metallica e disturbata sbraitava incessantemente: – Thomas! Thomas! Ma che cazzo è stato quel tonfo? Tutto ok?§– Ehi, Tobia… S-scusami, credo di aver avuto un mancamento.
– Un mancamento? Ma come stai? Come ti senti?
– Tranquillo, adesso è tutto a posto, alcune persone mi hanno dato una mano ad alzarmi. Credo di essere ancora alle poste. Questo è l’ufficio postale, giusto?
– Confermo – sorrise il ragazzo vicino a lui.
– Che cazzo di sogno ho fatto…
– Sogno? – rispose Tobia.
– Sì, una cosa incredibile. Mi trovavo qui, stavo aspettando il mio turno per ritirare un pacco, e poi, non so, devo essermi addormentato. Ho sognato di entrare in una specie di mondo parallelo pieno di gente fuori di testa; c’era una… una città immaginaria, che tutti chiamavano Hub. Un universo alternativo controllato da una setta r-religiosa.
Ci furono alcuni istanti di silenzio, seguiti da un profondo sospiro metallico. – Thomas, secondo me hai bisogno di una pausa. Sul serio. Sei stressato marcio, te ne rendi conto? Ma qualcuno laggiù ha chiamato l’ambulanza?
– Ma no, stai tranquillo. Mi sarò addormentato, lo sai che ho problemi di insonnia e tutto il resto. Non preoccuparti. Adesso faccio quel che devo fare; torno a casa, mi butto sotto la doccia e mi preparo per stasera.
– Va bene, dai, così finisco di raccontarti com’è andata a finire con quella ragazza, ieri sera.
– Oh, sì, sono proprio curioso di sentire quali stronzate le hai raccontato per convincerla a venire a letto con te.
– Tsk, stronzate! Questa la chiami stronzata? Osserva l’ombra del coniglio. Ascolta il suono del sax. Lo senti? È da lì che giungerà Amore.
– Ma cosa diamine è? – rise Thomas.
– Uhm, non so, una poesia che ho letto in qualche blog. Mi pareva fosse adatta alla circostanza, visto che la tipa è molto amante degli animali e della musica jazz.
– Secondo me sei solo fuori di testa, però ok, non vedo l’ora di ascoltare il resto della storia. A dopo.

 

Thomas salutò il ragazzo che lo aveva aiutato a rimettersi in piedi, il quale ricambiò con un cenno della testa e l’invito a mettersi a letto il prima possibile, e si avviò verso l’uscita dell’ufficio postale dopo aver ritirato il suo pacco. Sfociò nel piazzale antistante l’edificio, inondato dall’ultimo sole della giornata. Proprio mentre stava per avviarsi alla macchina parcheggiata poco lontano, notò che sulla sua spalla si era posata una splendida farfalla. Un macaone dalle ali dorate, sulle quali erano incastonate due macchie rosse come rubini, racchiuse in una intensa striatura color blu elettrico.
Rimase qualche istante, immobile, a contemplare quell’essere delicato ed elegante, con le antenne che ondeggiavano piano al vento d’estate. Sembrava in attesa di qualcosa, un segnale misterioso proveniente da qualche impenetrabile fessura di mondo.
“Che sogno ho fatto”, si disse Thomas, temendo che il semplice flusso dei suoi pensieri facesse rumore e spaventasse il fragile insetto. “Ma che ho in testa…? Assurdo”.
Dopo qualche istante, il macaone volò via. Non ci mise molto a scomparire, mimetizzato dai colori della città.
Thomas si rimise in cammino. La vista della farfalla l’aveva messo quasi di buon umore. Scese la breve scalinata del piazzale e, a un angolo della strada, urtò contro qualcuno che giungeva in direzione opposta alla sua.
– Chiedo scusa – farfugliò distrattamente all’indirizzo dello sconosciuto. Alzò lo sguardo, e fu subito stritolato da una sensazione di puro terrore, una paralisi delle ossa che sembrava impedirgli di respirare.
Perché colui che si trovò davanti, l’uomo contro il quale era andato a sbattere, aveva gli stessi connotati e l’identico sorriso di Butterfly. I suoi occhiali cerchiati d’oro scintillavano come aureole intorno agli occhi languidi. Thomas provò un istantaneo desiderio di fuggire, ma aveva le gambe cementate al suolo, e assisteva inerme all’imponenza che quell’incubo vivente che lo sovrastava e non smetteva di sogghignare.
– Allora, ragazzo, piaciuto il viaggio nell’Hub?

Ivan Bececco

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