Immaginate un ospedale con i suoi tanti reparti e le sue tante stanze. Chiunque vi entri lo fa con rispetto, devozione, paura. Spesso si fa capolino tra le porte lasciate semiaperte per paura di un’intimità che in altre circostanze affronteremmo con curiosità e sfida. Perché? Perché questa nudità è nudità di corpi che soffrono, ancor più di anime che soffrono.
Immaginate i malati, quelli gravi e quelli meno, messi insieme, divisi per tipologia di patologia, messi lì a condividere le proprie giornate con estranei, con estranei che diventano “fratelli” per virtù di una consanguineità del dolore, forse più forte di quella vera.
Immaginate medici, infermieri, quelli che operano in queste strutture, alcuni per passione, altri per lavoro perché non sempre e non tutto si fa per vocazione. Ecco, immaginate loro. Ogni giorno a scontrarsi col dolore fino al punto da diventarne immuni. Un’overdose di umanità soffrente che rischia di generare meccanicismi nelle cure e negli approcci, con lo scopo di sopravvivere emotivamente.
Eppure nessun malato è come un altro. Ognuno ha la sua storia, una storia che non sempre è possibile raccontare, anzi mai. Non la si racconta, non si svelano le proprie paure e le proprie angosce: mai ai familiari per non essere di peso, quasi mai ai medici, perché si finisce per diventare un numero da sbrigare tra tanti in attesa.
Questo è il solipsismo del malato. Eppure in questa realtà autoreferenziale il senso dell’umano, la solidarietà, l’essenza del vivere si moltiplicano di significati che andrebbero condivisi.
Immaginate allora che sia possibile trasferire agli altri il proprio vissuto e di trasferirlo nell’unico modo in cui l’uomo ha sempre fatto, ovvero “raccontandolo”, perché raccontare è dare la possibilità all’altro da me di “partecipare”, di vivere mille esperienze altre che diversamente non si coglierebbero, è dare la possibilità di intus – legere. Leggere dentro per aprirsi al mondo e per permettere al modo di guarirci.
È questa la visione e la missione della medicina narrativa; una metodologia, che si concentra sul ruolo relazionale e terapeutico del racconto dell’esperienza di malattia da parte del paziente e nella condivisione dell’esperienza, attraverso la narrazione, con il medico che lo cura.
Ora potete immaginare la stanza della scrittura, quella che è stata allestita dal 2013 al terzo piano dell’ospedale civile di Alessandria, nel reparto di Neurologia. La stanza della scrittura creativa. Uno spazio fisico e meta-fisico. Perché scrivere aiuta a stare meglio se a farlo è un paziente. Ma aiuta anche a mettersi meglio in relazione con quel paziente per chi si prende cura di lui dal punto di vista sanitario.
Alessandria è un esempio di eccellenza italiana nell’ambito della medicina narrativa che favorisce una diagnosi efficace.
Negli ultimi decenni si è assistito al progressivo sviluppo della Medicina Narrativa, soprattutto in ambito statunitense, dove sono nati corsi universitari specifici di Narrative Based Medicine (NBM), come quello proposto dalla Columbia University di New York. Tale sviluppo è legato al fatto che, a fronte di tecnologie di diagnosi e analisi sempre più sofisticate, ma anche di tempi sempre più ristretti, si è posto in secondo piano l’importanza dell’ascolto del paziente.
Rita Charon e Rachel Naomi Remen sono state le prime a denominare Medicina Narrativa quella modalità di affrontare la malattia, volta alla comprensione della complessità del vissuto del paziente.
La Medicina narrativa, NBM, come è stata successivamente denominata per distinguerla dal paradigma dominante della Evidence Based Medicine (EBM), si è inizialmente sviluppata all’interno della Harvard Medical School, dove predominavano l’approccio ermeneutico e fenomenologico. I punti di riferimento della NBM sono, infatti, Arthur Kleinman (1980) e Byron Good (1994), secondo i quali la medicina è un sistema culturale, vale a dire un insieme di significati simbolici che modellano il vissuto del malato. Kleinman (1988), infatti, distingue la malattia in disease e illness. Per disease intende la malattia in senso biomedico, quindi, una lesione organica o un’aggressione da agenti esterni, mentre con illness indica il vissuto, l’esperienza soggettiva della malattia. La narrazione della malattia riguarda questo secondo costrutto: le “storie di malattia” costituiscono la narrazione del vissuto soggettivo dell’individuo, ciò che per lui costituisce la sua “malattia”.
Sarebbe interessante, a questo punto, scoprire se la medicina narrativa possa fare un ulteriore passo e diventare condivisa tra i pazienti, per individuare quali elementi esperienziali siano da considerarsi archetipi di talune patologie.
Maria Mancusi