La Medicina di Genere è lo studio, nelle scienze biomediche, delle differenze legate al genere di appartenenza, non solo da un punto di vista anatomo/fisiologico, ma anche delle differenze biologiche, funzionali, psicologiche, sociali e culturali, oltre che di risposta alle cure. Una serie ormai vasta di studi dimostra che la fisiologia degli uomini e delle donne è diversa e tale diversità influisce profondamente sul modo in cui una patologia si sviluppa, viene diagnosticata, curata e affrontata dal paziente. Per questo chi lavora nel campo della salute – medici, ricercatori, aziende farmaceutiche, ma anche istituzioni pubbliche e società scientifiche – deve preoccuparsi che le risposte e le soluzioni – assistenza, terapie, farmaci – siano sempre adeguate alle caratteristiche della persona, incluse quelle di genere.
Uomini e donne si ammalano di patologie diverse. L’anemia è un problema femminile, causato dalle mestruazioni e dalle gravidanze, gli uomini invece hanno una maggiore predisposizione alle malattie cardiovascolari, ma l’infarto è la prima causa di morte nelle donne e si presenta con sintomi atipici: dolore al collo, ansia, fiato corto. Inoltre la stessa malattia può può manifestarsi nell’uomo e nella donna in maniera più o meno aggressiva. Il melanoma ha una progressione più rapida nell’uomo, mentre il tumore al polmone nella donna è più periferico, col rischio di una diagnosi tardiva.
La Medicina di Genere applica alla medicina il concetto di ‘diversità tra generi’ per garantire a tutti, uomini o donne, il migliore trattamento auspicabile in funzione delle specificità di genere. Questo oggi non avviene ancora in misura soddisfacente in diversi ambiti della medicina e della farmacologia, talvolta, ad esempio, si minimizzano i possibili di una nuova molecola sulle donne in età fertile per limitarne la partecipazione negli studi clinici.
Non è solo una questione di interesse accademico: ne va della parità tra uomo e donna nel diritto alla salute e nell’organizzazione del sistema sanitario. Il caso più eclatante riguarda le sperimentazioni di farmaci: in passato volontari e pazienti erano quasi sempre uomini. L’organismo maschile, infatti, è più semplice da studiare perché non ha il ciclo mestruale. Ma proprio la maggiore complessità femminile fa sì che tempi di assorbimento, dose minima efficace ed effetti collaterali siano diversi. Per esempio, gli Ace inibitori nelle donne provocano più di frequente una tosse insistente. Sarebbe invece auspicabile, una legge che obblighi a sperimentare i farmaci su gruppi che rispecchino la reale composizione della popolazione. Inoltre la medicina di genere dovrebbe essere inserita nei corsi di laurea e specializzazione. Solo così si può organizzare proficuamente la sanità, proporre screening differenziati e investire nella prevenzione, per spendere meno nell’assistenza.
Maria Mancusi