Per la Collana Omnibus italiani, Mondadori lancia una interessante iniziativa: il thriller d’autore, il primo dei quali è quello di Massimo Donati, “Diario di spezie”.
Ci racconta chi è Massimo Donati?
Come la vita di tanti, anche la mia si compone di frammenti. Di numerosi incontri, lavori e esperienze, che vanno dai campi profughi durante la guerra in Bosnia, alla messa in onda di trasmissioni radiofoniche, alla scrittura. Sicuramente il mio percorso ha un lato A e un lato B. Sul lato A c’è incisa la prima parte “ufficiale”, come ricercatore scientifico. Sul lato “B” il mio percorso in ambito cinematografico e teatrale, che mi ha condotto a scrivere molto, sceneggiature, soggetti, documentari e spettacoli teatrali, oltre a seguirne la regia. Ma ci sono diversi altri livelli, sicuramente la mia esperienza da insegnante è una di quelle, o la mia vita familiare, che è così importante nell’economia delle mie giornate. Forse non ho risposto alla domanda, forse non so rispondere.
Il suo esordio narrativo è legato a “Diario di Spezie”, ci parlerebbe della gestazione di questo testo?
La gestazione di “Diario di spezie” è stata piuttosto lunga e complessa. Concepito come un romanzo, è diventato una sceneggiatura, per poi tornare, dopo una lunghissima rielaborazione, alla forma del romanzo. Questo perché dopo aver concepito la storia da raccontare in ogni suo aspetto, non ho trovato subito la forza per immergermi nella scrittura del romanzo, era un romanzo difficile da scrivere per molti motivi, e mi risultava più semplice tradurlo in un’idea per il cinema. Poi è successo che questa storia ha vinto il Premio Solinas Giallo Nero, uno dei concorsi più importanti in Italia per i racconti cinematografici. Questo fatto, invece di spingermi a vendere la storia come base per un film, ha rafforzato l’idea di ritornare al romanzo e così ho iniziato a cercare la sua forma letteraria. L’ho scritto tutto una prima volta, ma non ero soddisfatto, e allora l’ho riscritto completamente, mentre studiavo in modo professionale l’alta cucina e il restauro. Successivamente ho rielaborato a lungo la seconda versione, perché volevo che la scrittura fosse scarna e maniacalmente precisa, perché doveva essere capace di portare il lettore dentro gli eventi raccontati. Questo mi ha obbligato a togliere quasi cento pagine, parola dopo parola, senza eliminare nemmeno una svolta della storia. Adesso quando penso a “Diario di spezie” sono tranquillo, perché so che è in tutto e per tutto il romanzo che volevo scrivere e perché in esso ci sono la mia carne e il mio sangue.
Il viaggio e la caduta: si potrebbe riassumere così il suo testo? Se sì, le sembra possa essere in fondo la storia di ogni vita?
Nella storia che racconto, il viaggio è la caduta, perché consente l’esplorazione delle psicologie dei personaggi procedendo attraverso l’osservazione delle dinamiche che innescano, guidano e portano a termine la caduta. L’intenzione era quella di osservare senza paradigma la fenomenologia di una discesa nell’abisso che passa attraverso gli strumenti della seduzione, del desiderio, della colpa, dell’intelligenza usata come arma di distruzione e di coercizione delle volontà. In questo senso, “Diario di spezie” è un thriller esistenziale, alla maniera de “La promessa” di Dürrenmatt, romanzo breve che ho amato molto. Non credo che la caduta sia la storia di ogni vita, anche all’interno del romanzo c’è una luce di speranza, e di giustizia, la mia visione non è così nera. In questo romanzo si racconta una caduta, intimamente legata alla storia dei miei personaggi, e spero unica in sé, in modo che attraverso la singolarità della vicenda, il lettore possa trovare l’universalità della vita.
Il suo libro è un viaggio nel male, come lei stesso lo intende, un male assoluto, senza scampo né eroi. Perché questa scelta?
Il male di cui racconto non è per niente pura brutalità fine a se stessa, come troppo spesso si dice. Simile alle forme del male che in altra scala dimensionale troviamo nelle nostre vite, compie manovre di accerchiamento, si serve di espedienti sottili, passa attraverso i desideri, e ha la capacità di aspettare paziente o di anticiparci, in modo da metterci di fronte al fatto compiuto. Un male che ha profonde ragioni nelle storie personali e che risponde a esigenze, a necessità, a una logica di ferro, spesso superiore a quello che chiamiamo bene. Questa idea del male mi sembra più vicina a ciò che incontriamo nella realtà intorno a noi, a una società sempre più complessa e mutiforme, nella quale le sfumature di senso sono tali e tante da confonderci. Il fatto che in questo romanzo non ci sia scampo e non ci siano eroi, penso sia vero solo a un primo livello. La salvezza personale e collettiva è uno dei temi principali, ma viene trattata per negazione. La salvezza non è garantita a priori, è legata alle scelte che i personaggi compiono, come per ciascuno di noi. La scelta, etica o no, è ciò che la determina. L’idea dell’eroe classico penso sia tramontata da tempo, eppure la mia idea di eroismo in questo romanzo è molto presente, e si ritrova non tanto in azioni fuori dal comune, ma piuttosto nella capacità che tutti abbiamo, pur nella fallibilità, di fare la scelta giusta, che si rivolge al bene.
Quali sono i suoi progetti per il futuro?
Devo finire un film lungometraggio che mi ha impegnato per quasi due anni, ma nel giro di qualche mese mi voglio rimettere a scrivere. Sul mio tavolo ci sono almeno cinque storie che mi piacerebbe raccontare nella forma del romanzo, sono già ben definite e molto diverse fra loro. Non sono tutte storie di genere, per me il genere è un punto di partenza da evolvere o da negare. Ma non so quanto tempo impiegherò a scegliere e a scrivere il prossimo romanzo nella sua forma definitiva. Alcuni scrittori sanno già che per il marzo prossimo finiranno il loro nuovo libro. Per me è difficile ragionare così perché fino a quando non ho raggiunto quella tranquillità di cui parlavo all’inizio, che è la sicurezza di dare a un lettore veramente tutto, non voglio che la mia storia sia letta.
Connessioni letterarie è un blog che tratta con grande attenzione soprattutto l’editoria e la cultura del futuro, quella cioè legata al digitale. Si sente di farne un’analisi? Quale sarà secondo lei la letteratura del web 3.0 verso cui stiamo andando? Come valuta fenomeni come la narrativa con un tweet, la scrittura condivisa, la viralità dei social network?
Io appartengo alla generazione che è cresciuta con un computer accanto e il mio legame con la tecnologia digitale e il web è forte, ma non mi sento in grado di fare una vera analisi. Sicuramente osservo con grande interesse i nuovi sviluppi e cerco di cogliere le nuove possibilità che offrono sia l’interazione in rete sia le nuove forme di fruizione e diffusione dei contenuti… In particolare mi interessa ciò che la rete può fare al tempo e allo spazio della narrazione. I media tradizionali hanno portato a dei format abbastanza precisi, pur con larghi margini, per la durata media di un film, la lunghezza di un romanzo, gli spazi di una performance o di uno spettacolo. Con la rete alcuni di questi vincoli cadono, sia in una direzione di brevità e di concentrazione, sia in una strada di estensione oltre le misure standard. Per quanto riguarda la narrazione con i tweet, la conosco ancora poco, non mi ci sono veramente appassionato, ma penso che anche lì ci siano persone con particolari doti narrattive nella brevità assoluta, fino ad arrivare alla poesia vera, come quella degli haiku giapponesi, quelli di Bashò per esempio, sempre composti esattamente da 17 sillabe.
Chiudiamo sempre le nostre interviste con due domande:
La frase che le è piaciuto di più scrivere, leggere o ascoltare…
“Prendendo il sacco di tela, camminando sulle tracce dei passi, poi sul corpo inerte di nostro Padre, uno di noi se ne va nell’altro paese. Quello che resta torna in casa di Nonna.” È una frase de “ Il Grande Quaderno” di Agota Kristof, uno dei romanzi che ho amato di più in assoluto.
Un suo messaggio per i lettori di Connessioni letterarie…
Immagino che chi frequenta Connessioni Letterarie ami la lettura, come scoperta di mondi e di emozioni che ci portano in un altrove che può essere nella casa del nostro vicino o in un pianeta lontano, ma sempre, semplicemente, a caccia di vita. Ecco, mi piacerebbe che un romanzo come il mio si leggesse sapendo che anch’io sono quel tipo di cacciatore, e che non mi faccio sconti e non cerco scorciatoie nel farlo.
Maria Mancusi