Ti seguo, o meglio, ti inseguo mentre corri lungo questo marciapiede fradicio di pioggia. Corri stringendo un ombrello a tinte azzurre e nere che dondola avanti e indietro, impazzito, assecondando il movimento regolare e frenetico delle tue gambe. Io, invece, non ho barriere che mi difendano dal temporale: l’acqua scorre sul mio collo, è fredda, è come la punta di un coltello che indugia intorno all’aureola di un capezzolo, solleticandolo.
Arriviamo di fronte alle porte a vetri di una stazione assurdamente vuota, sebbene – controllo l’orologio – siano le cinque e mezza. È già notte. I neon diffondono una luce di ghiaccio all’interno dell’edificio, cosa che mi fa sentire ancora più freddo. Squilla una voce robotica di donna, annuncia l’arrivo imminente del treno per B*** al binario dodici. Non presti ascolto all’altoparlante perché, non so come, sai già dove andare, e ti avvii all’impazzata verso le scale mobili che portano al piano superiore. Il tuo impermeabile abbottonato fino al collo rivela un lembo di stoffa rossa, il maglione che ti ho regalato due anni fa. Ti è piaciuto subito, non appena l’hai visto in negozio.
La voce si interrompe, l’altoparlante muore. Si sente solo il ronzio meccanico e stanco delle scale mobili che ci trascinano verso la pedana.
– Ehi, senti, perché stai and… Dai. Fermati un momento, ascoltami.
– Lasciami stare, vattene.
– Io, io ti voglio dire una cosa. Adesso. Fermati, per favore.
– È tardi. Ti ho dato fin troppo tempo per parlare.
– Sì, ma lo sai come son… Vorrei solo dirtelo.
Le tue scarpe schioccano contro la pedana di metallo. In questo preciso momento, non so perché, mi viene da pensare a mia nonna. Me la vedo là, la sua sagoma, stampata contro il plexiglas dove campeggia una patetica scritta di benvenuto ai turisti che, d’estate, sciamano dai treni e vanno a visitare i monumenti di R***. La sagoma asciutta e ondeggiante di mia nonna che mi sorride. Mi vengono le lacrime agli occhi, così, all’improvviso: mi sono fermato solo per un momento e già ti vedo rimpicciolire vicino alla linea gialla, in attesa del tuo treno. Sento un gigantesco peso alle gambe; è come se qualcuno avesse spalmato del cemento a presa rapida intorno alle mie caviglie. No, non adesso. Mi faccio forza, i pesi si sciolgono e ti raggiungo di corsa. Tu, impassibile.
– Avanti, dai, parla. Cosa vuoi. – Nella tua voce non risuona alcuna domanda, ma solo disprezzo.
– Lo sai come sono fatto. Io non ci riesco. Ho provato. Ma non devi dubitare, non devi dubitare del fatto che po–
– Sono stanca. – L’hai detto così, semplicemente.
– Rimani. Davvero. Possiamo parlarne. – La tramontana mi accarezza le guance bagnate. Allungo una mano per afferrare la tua, ma riesci appena in tempo ad infilarla in tasca per sottrarti al contatto della mia pelle.
– Cos’è che vuoi dirmi. Parla. Stai perdendo tempo. Puoi dirmelo adesso, approfitta.
Già, posso dire tutto; eccola, la possibilità che cercavo. Eppure c’è qualcosa che morde, da qualche parte vicino allo stomaco, e che mi impedisce di parlare. La voce non esce. Allora provo a far parlare gli occhi, che si fissano sui tuoi. Ti guardo.
– Vai a casa. Il treno sta per arrivare.
In effetti spunta, improvvisa, una carcassa scura che arresta la sua corsa di fronte a noi, cigolando ovunque. Si aprono le porte a vetri mentre piango, e mi rendo conto che ti sto supplicando. Ti sto chiedendo di restare, ma tu trascini il tuo bagaglio su per le scalette metalliche e scompari nel vagone. Resta, resta.
Prendi posto vicino a un finestrino appannato dalla condensa. Solo un piccolo alone al centro mi permette di guardare il tuo profilo, teso e irrigidito, ostinato nel tener fisso lo sguardo verso chissà cosa di fronte a te. Perché sai che ti sto osservando, ma tu vuoi solo che questo treno si rimetta in moto.
I motori fremono, il convoglio muove qualche passo lungo il binario. Diventa sempre più rapido, ma io ormai sono fermo. È allora che volti la testa verso di me, mi guardi, e sento come un vento caldo attraversarmi la testa. Ecco, l’ho detto, forse ho urlato. Mi hai sentito? Riesci a sentirmi?
L’ho detto.
Non so dirlo con esattezza perché sei già scomparsa, inghiottita dalle tenebre. Mi è sembrato di vedere un tuo sorriso, l’ultimo angolo di pelle piegato all’insù. Poi si riaccende la voce dell’altoparlante.
14 ottobre 2016,
8:18 pm
Ivan Bececco