Attualità Cultura e società Fotografia

Il World Press Photo, la striscia di Gaza e la galleria degli orrori

Scritto da Tonia

C’è la testa del corteo funebre per la morte di due bambini, ci sono uomini che torturano altri uomini, altri che fanno scempio di cadaveri, cadaveri che galleggiano in un pantano, anche se sembra stiano volando tra le poche nuvole di un cielo limpido; ci sono bambini che piangono, madri che piangono, uomini che soffrono e qualche volta piangono, anche loro, altri che sparano, e poi c’è il sangue.

È il bilancio dei selezionati per il World Press Photo 2013, il più autorevole riconoscimento per la fotografia giornalistica a livello mondiale che, riunitosi ad Amsterdam, ha assegnato tra gli altri al fotografo danese Paul Hansen il premio per la miglior fotografia dell’anno.

Per quanto crude e forti, le fotografie selezionate hanno il merito di aver reso visibili realtà alle quali i nostri sensi si erano ormai abituati da tempo; infatti diversamente dalle immagini che riempiono quotidiani o notiziari queste colpiscono senza lasciare indifferenti.

Messe lì in successione, come in una galleria degli orrori, testimoniano quanto sia piccolo e stupido l’uomo che continua a farsi tanto male. Eppure non sono sicura che sia esattamente questo il messaggio che trasmettono, o se si vuole, quello che arriva prima.

I mezzi di comunicazione, si sa, servono a informare e la fotografia fa anche questo.

Ieri esistevano i disegnatori di guerra (un disegno, spacciato per fotografia – che all’epoca si trasmetteva su carta per mezzo di incisioni – fu uno dei primi premi Pulitzer assegnato a un’immagine) oggi ci sono fotoreporter d’assalto, domani saranno i passanti, testimoni casuali, a scattare fotografie con i loro smartphone.

Quello che sconvolge, cercando di guardare oltre la violenza di cui l’uomo è capace, è quanto quelle immagini siano spettacolari. E quanto male faccia tutta quella cruda verità freddamente composta a creare un quadro efficace sul piano formale, emotivo ed estetico.

La vita di tutti i giorni ci ha abituato alla quotidiana somministrazione di video sgranati e confusionari o di rappresentazioni che standardizzano l’immaginario comune delle guerre nel mondo – scenari polverosi, folle in tumulto, macchie di sangue. Le foto selezionate sembrano invece superare l’assuefazione visiva, scuotono lo sguardo, non mostrano nulla di nuovo ma lo fanno con una forma inconsueta, inquietante, spettacolare, grottesca. In una forma appunto, in una immagine cioè esteticamente valida, pericolosamente bella.

È così che la stessa realtà dei telegiornali della sera, sebbene acconciata in maniera diversa, premia i fotografi per aver testimoniato per l’uno o l’altro teatro di guerra.

E se la guerra va in scena, se le fotografie finiscono nei musei, così simili a fotogrammi rubati al cinema, se le madri che piangono i loro figli ci paiono così simili a madonne, se ci ricordano le Pietà o i Compianti che hanno fatto la storia dell’arte è ancora di informazione che si può parlare, oppure della sua spettacolarizzazione?

Se è di un gioco delle parti che si tratta, il pericolo è che queste si sedimentino, che l’opera del fotografo diventi una produzione fine a se stessa ma ben congegnata per toccare le giuste corde dell’osservatore, che il ruolo del destinatario divenga quello dello spettatore passivo e talvolta distratto, che i soggetti diventino attori caratteristi che prestano la loro espressività all’obiettivo: la madre addolorata, il figlio morto, il nemico brutale, gli scenari sempre gli stessi.

Dall’altra parte rimane il dubbio, il dubbio che sia questa la sola modalità oggi efficace nel veicolare le informazioni: in un’era in cui i nostri occhi sono saturi di immagini è di immagini spettacolari che abbiamo bisogno.

Iperstimolati sul piano visivo e non solo, prestiamo attenzione solo a ciò che ci sconvolge, ci interessiamo solo al sensazionale, perché nulla più pare meravigliarci davvero.

È questo quindi il merito di quei fotografi, premiati questa settimana per il World Press Photo? Quello di aver spettacolarizzato una realtà in modo da averla resa meno invisibile?

Il cinema usa gli effetti speciali per catturare e tenere viva l’attenzione dello spettatore.

Ma che ne sarà quando il sensazionale e lo scandaloso avranno perso la loro eccezionalità, quando ci saremo assuefatti anche a tanta spettacolarizzazione?

Chiara Mauriello

[La fotografia, nel rispetto del diritto d’autore, viene riprodotta per finalità di critica e discussione ai sensi degli artt. 65 comma 2, 70 comma 1 bis e 101 comma 1 Legge 633/1941.]

World Press Photo

Contenuto non disponibile
Consenti i cookie cliccando su "Accetta" nel banner"

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Utilizziamo i cookie di terze parti per personalizzare i contenuti e gli annunci, fornire le funzioni dei social media e analizzare il nostro traffico. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all’uso dei cookie. Leggi l'informativa estesa

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi