Giovani e precariato: un connubio troppo presente negli ultimi tempi. Che cosa è il precariato? Come definirlo? Proviamo ad analizzarlo.
Il precariato è l’impossibilità di prendere decisioni relativamente alla propria vita e al proprio futuro, in conseguenza alla mancanza di una stabilità lavorativa.
Spesso si confonde il precariato con la flessibilità. La flessibilità è una caratteristica del sistema economico post-fordista. Essa da un lato, prevede la possibilità per un soggetto di cambiare più volte lavoro nell’arco della propria vita, dall’altro richiede la disponibilità a lavorare con orari flessibili, rispetto alle esigenze e alle richieste del datore di lavoro, a cambiare mansione, a compiere periodicamente trasferte di lunga durata, a trasferirsi. In un mercato del lavoro dinamico la flessibilità potrebbe rappresentare un’opportunità di apprendimento, qualificazione e mobilità, poiché sollecita i lavoratori a divenire imprenditori di se stessi, a gestirsi con autonomia e destrezza nel mercato del lavoro. Intesa in termini funzionali, la flessibilità dovrebbe addirittura prevedere mancanza di temporaneità e stabilità di contratti, poiché per richiedere maggiore cooperazione, impegno e capacità di adattamento rispetto ai ruoli e agli orari lavorativi, è necessario garantire un’adeguata contropartita in termini di sicurezza economica e continuità del lavoro.
Nelle regioni economicamente poco dinamiche, la flessibilità rischia di degenerare in precariato, poiché si traduce nella mancanza di partecipazione al mercato del lavoro e nell’assenza di un reddito necessario per pianificare la vita presente e futura. Questa condizione è acuita quando mancano adeguati ammortizzatori sociali in grado di sopperire all’esclusione dal mercato del lavoro.
La precarietà è spesso collegata alle forme atipiche di impiego rappresentate dal lavoro temporaneo, nelle varianti del lavoro a termine e del lavoro interinale.
Dal punto di vista sociale e personale il lavoro temporaneo è vissuto in maniera diversa da lavoratori di età differenti. A vent’anni avere un lavoro temporaneo può non costituire un problema, a trenta o quaranta anni può diventare un ostacolo, poiché incide su scelte fondamentali dell’esistenza. Si può verificare uno slittamento dell’ingresso nella vita adulta, poiché si rinviano quelle decisioni che segnano il passaggio alla condizione di adulti come sposarsi, avere figli, uscire dalla famiglia di origine. Si rischia in tal modo di minare il senso di continuità dell’esistenza, erodere l’integrità dell’io, compromettere i meccanismi di costruzione dell’identità e i processi di integrazione sociale, e si finisce per indebolire le capacità progettuali.
Un aspetto non secondario, da tenere in considerazione nel generale panorama della flessibilità, è la modalità attraverso la quale i lavoratori atipici vivono la propria condizione di instabilità nel mercato del lavoro, che va al di là della sfera occupazionale ed è legata alla costruzione dell’identità professionale e sociale degli individui. La flessibilità, che è stata presentata come un’opportunità per ampliare i propri margini di libertà nelle azioni individuali e nella realizzazione di se stessi, appare talvolta come una condanna dei giovani alla precarizzazione del proprio percorso professionale e della vita in generale. L’assenza di contratti a lunga durata ricade sulla possibilità di guardare il futuro con maggiore serenità, poiché si è consapevoli di poter contare su un reddito solo per un breve periodo, si ha la certezza che, cessato quel reddito, non ci sarà alcuna garanzia. Quando la flessibilità non rappresenta il trampolino di lancio per l’entrata nel mondo del lavoro e si traduce in precarietà, si rischia di minare il concetto di identità professionale. Molte volte, come osserva Maurizio Avola “uno dei maggiori rischi dell’allungamento delle carriere nel precariato è lo spreco di risorse che passa attraverso sistemi diffusi di over education e di ridimensionamento delle aspettative relative alla qualità di occupazione ricercata” (La differenziazione territoriale dei modelli di instabilità occupazionale in Italia, in Vite Flessibili a cura di Rita Palidda, Milano 2009, Franco Angeli).
La flessibilità in alcuni casi si configura come un percorso transazionale caratterizzato dalla pluralità e intermittenza delle esperienze di lavoro, dall’intreccio con ulteriori esperienze formative e dalla tendenziale indeterminatezza delle mete. In altri termini, c’è la possibilità di perdere di vista i propri obiettivi professionali, passando da una professione all’altra senza un disegno preciso.
Dal punto di vista oggettivo, la percezione dell’incertezza occupazionale varia in base a fattori come il genere, l’età, l’origine sociale, il grado di istruzione e le risorse materiali e simboliche di cui un individuo dispone. Dal punto di vista soggettivo, la percezione della precarietà cambia in base agli orizzonti temporali e alla progettualità dell’individuo. Per quanto riguarda il contesto, il rischio di precarizzazione è connesso alle caratteristiche del mercato del lavoro locale. Nelle regioni economicamente più dinamiche, la precarietà occupazionale nel tempo si evolve verso la stabilità dell’impiego, nelle regioni meno dinamiche c’è il rischio di rimanere intrappolati nell’instabilità.
Le risorse identitarie, sociali, economiche e culturali hanno un ruolo decisivo nella percezione dell’instabilità. Chi possiede un elevato titolo di istruzione, crede nelle proprie capacità, ha un chiaro progetto lavorativo, ha la possibilità di contare su una rete familiare, potrà avere un atteggiamento ottimista nei confronti del futuro. La presenza di una progettualità lavorativa aiuta a sostenere la precarietà. A lungo andare, però, anche in questi casi, l’instabilità lavorativa può compromettere la tenacia verso i propri obiettivi e determinare scoraggiamento e ridimensionamento delle proprie aspettative.
La capacità di evitare i rischi dell’incertezza dipende anche dalla capacità del soggetto di costruire un percorso professionale coerente tra gli impieghi instabili, evitando in tal modo l’intrappolamento nel disordine lavorativo. In tal senso la rilevanza delle risorse familiari e relazionali è decisiva nelle scelte individuali. I soggetti socialmente più svantaggiati, rischiano maggiormente rispetto a chi ha buone risorse culturali e sociali, di rimanere intrappolati nel precariato.
Di fronte all’incertezza è possibile reagire in maniera differente: c’è chi, nonostante l’instabilità apprezza il proprio lavoro perché lo svolge con amore e passione, ma gradirebbe una maggiore solidità; c’è chi vive la precarietà come un momento transitorio, perché ricopre un ruolo incongruente con le proprie aspettative solo per ragioni economiche; in entrambi i casi siamo in presenza di un progetto lavorativo che consente di vivere “con filosofia” la condizione di precariato. C’è infine chi, non ha un progetto lavorativo definito e rischia di rimanere intrappolato e invischiato in lavori dequalificanti e poco coerenti con la propria preparazione.
Per evitare gli effetti negativi della flessibilità sarebbe necessario ripensare il concetto di identità. Come osserva Rosy Musumeci l’instabilità occupazionale elimina il lavoro come principale canale per la costruzione dell’identità personale (Alla ricerca della qualità del lavoro tra fiducia e disincanto, in Vite Flessibili a cura di Rita Palidda, Milano, 2009, FrancoAngeli). Nell’arco della propria vita, i soggetti sono chiamati a svolgere professioni diverse, seguendo talvolta traiettorie poco lineari. Gli individui non sempre riescono a dare un senso, una continuità a questi spezzoni, poiché si trovano ad avere un’identità che non è mai definita. Nasce la necessità di un’identità flessibile, adatta a quel particolare momento della propria vita professionale e personale.
Si può combattere l’indeterminatezza del precariato con un’identità flessibile? Siamo capaci di reinventarci ogni giorno per non farci schiacciare dalle posizioni atipiche che ci ritroviamo a occupare?
Tonia Zito
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