Lo squillo festoso delle campane mise in allerta il borgo, sprofondato nel classico, sonnolento torpore della domenica mattina. Dalle finestre si spandevano le prime fragranze che, di lì a poco, avrebbero attirato simpatiche e sgangherate famigliole intorno ai tavoli da pranzo, pronte a riallinearsi con l’universo impugnando forchetta e coltello. Qualcuno spalancò le persiane, incuriosito dalla quantità di macchine parcheggiate lungo il viale che conduceva alla chiesa e dal chiacchiericcio di persone vicino all’ingresso. «Come, non lo sai? Oggi si sposa Angela, la figlia degli Scardone», rispondevano generalmente le mogli ai mariti ignari del gioioso evento. «Si sposa? Davvero? E con chi? Oddio, aspetta… non mi dirai che alla fine quel pazzo del Brinucci se l’è portata all’altare!» «Ma dai, Giorgio, non si dicono queste cose. È acqua passata, lo sanno tutti. Il povero ragazzo è andato in clinica e ormai è a posto. E poi i genitori di lei sono tanto contenti.»
Giacomo Brinucci stava finendo di fumare una sigaretta, annuendo macchinalmente ai continui motteggi dei suoi amici che gli facevano notare che «è finita la pacchia, eh? Adesso una sola te ne puoi scopare!» ed elargendo larghi sorrisi, forse un po’ tirati (sarà stato per via del colletto della camicia bianca abbottonato troppo stretto), ma comunque sinceri. La barba perfettamente rifinita, tanto che su quel volto sembrava fosse intervenuto un geometra più che un barbiere, qualche chilo di troppo infilato insieme alla camicia dentro un paio di pantaloni di cotone neri, il nodo della cravatta un po’ elaborato e investito da un raggio di sole. Giacomo Brinucci terminò la sua sigaretta, gettò uno sguardo distratto agli ulivi che campeggiavano nel giardinetto antistante la chiesa e fece il suo ingresso trionfale inondato di applausi e grida festose, mentre per qualche ragione gli risuonava in testa una strofa di Because dei Beatles: “Because the wind is high it blows my mind / Because the wind is high, ah…” Di vento, a dire il vero, ce n’era poco, e dentro quella cupa scatoletta affrescata ristagnava un caldo opprimente, reso quasi tetro dal movimento di nonne e zie che si sventolavano con il foglio della messa.
Lo sposo prese posto di fronte all’altare, salutando l’ingresso di don Carmine Spira che si sarebbe incaricato di consacrare a Dio i promessi sposi. Sudava copiosamente, il povero prete, ciononostante ricambiò con un sorriso il cenno di Giacomo Brinucci. Depose sul leggio la sua strumentazione liturgica, contenente passi del vangelo e testi di canzoni, e andò a scambiare due parole furtive proprio con lo sposo. «Allora, Giacomi’? Come stai? Agitato?» «Sì, padre, un po’» rispose, con voce tremante. «Eh beh, immagino, oggi è il più bel giorno della tua vita, no? Vedrai quant’è bella Angela col vestito da sposa!» Giacomo sorrise, il prete gli batté la mano sulla spalla e tornò a prendere posto dietro l’altare, chiamando a sé i due chierichetti che l’avrebbero aiutato nel corso della celebrazione. Oltre la fila riservata a genitori e testimoni, le panche straripavano di teste canute, calvizie incipienti e avanzate, boccoli ossigenati, chatouches, capelli piastrati, appena smossi dai ventagli di pizzo.
Trascorsero i classici dieci minuti di attesa che fanno sprofondare gli sposi nel dubbio: oddio, e se lei non arriva? Se all’ultimo ha deciso di scappare col mio migliore amico? Eppure il migliore amico di Giacomo si trovava in chiesa con lo scomodo ruolo del testimone, e stava scambiando quattro chiacchiere coi genitori di lui che non riuscivano a trattenere lacrime e logorrea. Di colpo, il mormorio generale di spense, la navata centrale piombò in un silenzio guastato solamente dal ronzio di un blasfemo moscone.
La sagoma di Angela Scardone, delicato confetto avvolto in un abito di organza come quello cantato da Carmen Consoli, si stagliò in controluce all’ingresso della chiesa, un piede dentro e uno fuori, sorretta al braccio dal padre. L’organista abbatté le dita sulla tastiera del suo strumento ed ecco che la marcia nuziale prese il volo, sostenuta dall’applauso ebete degli spettatori che divorarono con gli occhi l’ingresso della sposa. Angela Scardone salutò il suo compagno con gli occhi pieni di lacrime, incorniciati dal mascara, mentre lasciava la mano del padre che si recò tremante al proprio posto. «Ciao, tesoro» disse lei, intrecciando le dita di Giacomo.
La cerimonia iniziò, e fu tutto uno scambio di invocazioni e amen, intervallati dai canti di rito e da occasionali «Oddio che bella» indirizzati alla sposa, espressioni soffocate a stento da qualche cugina di terzo grado con le caviglie già gonfie a mezzogiorno. Ogni tanto i click delle fotocamere degli smartphone andavano a perdersi nelle volte basse della navata.
Per diverso tempo, Giacomo Brinucci tenne gli occhi incollati alla lettera Ù de “La parola di Gesù”, il titolo del libro aperto sul leggio accanto alla postazione di don Spira, le cui spalle erano fedelmente guardate dai due chierichetti che si scambiavano risolini e buffetti, giocherellando coi loro crocifissi appesi al collo. L’omelia del sacerdote affrontò argomenti di indubbio interesse generale: citò un passo dei Corinzi, “I coniugi sono innanzitutto sposi nel Signore”, espressione accolta con generale consenso. Abbandonò il pulpito per avvicinarsi ai fedeli e insistere sui concetti più importanti. Il pubblico adulto annuiva a intervalli regolari, mentre sparuti ragazzini battevano le mani sulle ginocchia tanto per fare qualcosa.
Alla fine giunse il momento a lungo atteso, l’epilogo a cui buona parte degli spettatori avrebbe voluto assistere bypassando tutto il resto del cerimoniale. Giacomo Brinucci e Angela Scardone si portarono al centro dell’altare, al cospetto di don Spira, il quale posò sulla coppia in procinto di consacrarsi a Dio uno sguardo di sincera, paterna approvazione. Il sacerdote volle spezzare la tensione generale con una battuta: «Embe’, alla fine pure voi siete arrivati qua! Chissà come mai me lo immaginavo.» Angela arrossì, Giacomo abbassò la testa e dalle retrovie si levò un coro ben ammaestrato di risa. Qualcuno si lasciò persino sfuggire un applauso. Don Spira lasciò che il chiasso si smorzasse naturalmente, quindi esordì con il campionario di formule matrimoniali: «Carissimi, siete qui convenuti davanti al ministro della chiesa e davanti alla comunità perché la vostra decisione di unirvi in matrimonio sia fortificata dal sigillo del Signore e il vostro amore, arricchito della sua benedizione, sia rafforzato nella reciproca e perpetua fedeltà e nel compimento degli altri doveri del matrimonio».
Un impercettibile istante di pausa.
«Vi chiedo pertanto di esprimere davanti alla chiesa le vostre intenzioni».
Toccava a Giacomo portare avanti il formulario prestabilito. Era il suo turno. Abbassò per una frazione di secondo la testa, vide la sua mano sinistra penzolare indifferente nel vuoto, mentre la destra stringeva le dita di Angela Scardone. Non parlava. La cosa era insolita e fuori programma. Perché non dice nulla?, mormorò una delle cugine con le caviglie gonfie all’orecchio della vicina di panca. Certo che l’emozione è tanta, guarda quanto sta sudando. All’età sua io avevo già due figli, oggi ci si sposa tardi perché non c’è lavoro. La gente, in preda all’horror vacui, esorcizzava il silenzio raccontandosi cazzate a vicenda. Sì, però qualcuno gli dica qualcosa, deve parlare.
Ma Giacomo non parlava. Aveva riabbassato la testa. Don Spira ostentava tranquillità dietro un velo crescente di apprensione. Angela gli strinse forte la mano destra per cercare di riportarlo alla realtà. «Ehi, che c’è? Va tutto bene?» gli sussurrò in tono conciliante, ma lui era perso nella contemplazione della mattonella che le suole delle sue scarpe laccate calpestavano.
Mentre il sudore gli scorreva impietoso ai lati delle tempie, lo sposo, che continuava a tenere la testa bassa, disse ad alta voce: «Ehi, Johnatan, dove sei?» La folla piombò nello sconcerto. «Come, scusa?» ripose il prete, grattandosi i baffi con l’indice destro. Ma lui ripeté: «Johnatan. Johnatan, dove sei?» «Che stai dicendo?», chiese Angela, allentando la presa sulla mano di lui. Dietro di loro scoppiarono mormorii di incredulità, anche se qualcuno rideva, convinto che Giacomo Brinucci volesse fare uno scherzo a tutti i presenti. Inopportuno, ma era nel suo stile, nulla di cui preoccuparsi. Un paio di anziane signore non mancò di manifestare il proprio sdegno.
Eppure Giacomo Brinucci continuava a ripetere incessantemente: «Johnatan, dove sei, ho bisogno di te.» Angela Scardone, venuta meno la sua già fragile soglia di ironica sopportazione, aggrottò le ciglia e lo strattonò con violenza, mentre don Spira gli posò una mano sulla spalla avvicinandosi per osservarlo meglio. La chiesa a quel punto straripava di voci, i genitori dello sposo si alzarono di scatto e nello stesso momento senza capire cosa diavolo gli stesse succedendo. Solo il padre di Angela rimase perfettamente seduto al proprio posto, con lo sguardo turbato e un’espressione alla “io lo sapevo” appiccicata sotto i baffi.
«Johnatan dove sei Johnatan dove sei Johnatan dove sei» cantilenava lo sposo come una macchina impazzita. Angela cominciò a gridargli in faccia, qualcuno meditava di chiamare un’ambulanza, a qualcun altro si era risvegliato nella testa quel fatidico dubbio che con tanta fatica e fiducia aveva cercato di seppellire: e se Giacomo non fosse mai guarito?
Poi, all’improvviso, il suo delirio si interruppe. Restò immobile come una statua di pietra, quindi alzò la testa e guardò da qualche parte davanti a sé. Tutti furono contagiati da quel silenzio inatteso e, si sperava, chiarificatore. Angela Scardone era trasfigurata, don Spira si coprì il viso con le mani, disperato.
«Eccoti, Johnatan. Finalmente. Cazzo, quanto ci hai messo?»
Il pubblico rimase atterrito, perché Giacomo non si stava rivolgendo a qualcuno, a una persona fisica, ma continuava imperterrito a guardare avanti, perso forse tra i vividi colori della vetrata che troneggiava sopra l’altare maggiore. I genitori dello sposo e buona parte del pubblico ebbero l’istinto di voltarsi verso l’ingresso della chiesa, per verificare se fosse entrato qualcuno, ma non si vedevano che due smagrite tortore in cerca di rimasugli di cibo. «Giacomo, porca troia, con chi stai parlando!» gridò Angela in un impeto convulso di rabbia mista a paura.
Allora lui si girò di scatto verso di lei: «Angela, ora posso dirtelo, posso dirti tutto», proruppe in tono liberatorio. Sorrideva di fronte allo sconcerto della sua sposa. «Giacomo, che cazzo stai facendo, cosa devi dirmi!» urlò. «Io non ti posso sposare, Angela. Non ti posso sposare». Due lacrime istantanee traboccarono dai suoi occhi mentre uno dei due testimoni, il suo migliore amico, piombava su di lui per strattonarlo e cercare di capire quale nube gli avesse ottenebrato il cervello: «Giacomo, ascolta, non capisco che ti passa per la testa, ma sappi che se si tratta di uno scherzo sei un coglione, un vero coglione»; e così dicendo continuava a scuoterlo in tutte le direzioni. Lo sposo però riuscì a liberarsi dalla presa dell’amico e con un balzo si portò al centro della navata, tra le panche invase dalla folla in pieno delirio.
Qualcuno provò ad afferrarlo alle spalle, ma lui seppe prontamente divincolarsi. «Non vi avvicinate!» strillò. «Non vi avvicinate. È stato Johnatan a dirmi di non sposarti, Angela. Stavo aspettando la sua conferma, poi… Bum! È piombato in chiesa e ha detto “No, fermo, tu non ti puoi sposare”. Io mi fido di Johny, non mi ha mai deluso. Scusate tutti, ma adesso ce ne dobbiamo andare».
Angela si tuffò tra le braccia dei suoi genitori, piangendo disperata. Era ormai impossibile distinguere, nel miscuglio di voci impazzite che si sovrapponevano senza sosta, il filo logico di un discorso qualunque. Giacomo approfittò della confusione momentanea per precipitarsi fuori dalla chiesa e salire nell’abitacolo della sua macchina, infuocato dal calore estivo. Accese il quadro e schizzò via lungo il viale, con il cuore che gli martellava le costole e le tempie pulsanti invase di sudore, sollevando una nube di polvere.
Svoltò a destra in direzione dell’autostrada e sparì, lasciando esterrefatti tutti coloro che avevano tentato di inseguirlo.
Giacomo guidò per più di due ore, a denti stretti, serrati, prima di fermarsi a una stazione di servizio.
«Hai fatto bene, non hai nulla da rimproverarti, lo sai» lo consolò Johnatan. «Quella donna non era adatta a te. Adesso calmati, dai».
Johnatan posò le sue zampe irsute sulla spalla di Giacomo, annusandogli il collo e tirando di tanto in tanto qualche boccata dalla sua pipa di mogano lucido. Un rivolo di bava pendeva dalle sue fauci, inarcate in un sorriso paterno. Era così tranquillizzante, il caro Johnatan, quel vecchio orso che abitava nel suo armadio fin da quando Giacomo era un bambino, per poi seguirlo in tutte le tappe fondamentali della sua vita. Johnny era il suo unico amico, il solo a essergli stato accanto durante gli anni del ricovero in clinica. Come poteva non fidarsi di lui? Non lo aveva mai deluso. Era chiaro che doveva aver fatto la giusta scelta seguendo il suo consiglio. Pensando a ciò, riuscì a tranquillizzarsi quasi istantaneamente. Il suo respiro si placò, la mascella si aprì piano rilasciando la presa. Giacomo si tolse la giacca nera impregnata di sudore e la gettò sul sedile posteriore, poi si arrotolò le maniche della camicia fino agli avambracci.
Restò immobile per qualche minuto, le mani appoggiate al volante e i finestrini abbassati, ad assaporare la leggera brezza che si era levata e gli accarezzava la fronte umida.
«Ehi, Giacomino, posso chiederti un favore?» disse Johnny all’improvviso. «Ho una gran voglia di bere qualcosa. Perché non scendi a comprare una bottiglia di Chivas per me e un pacchetto di Merit per te, eh?» «La tua marca preferita, giusto?» ammiccò Giacomo mentre apriva lo sportello.
Ivan Bececco