Racconti d'autore

Nella mente di Butterfly (parte 6)

Scritto da Ivan Bececco

Parte 4

Thomas aprì gli occhi accartocciati, avvertendo un dolore pulsante alla nuca mentre cercava, non senza difficoltà, di riprendere conoscenza. Si risvegliò in una piccola stanza quadrata, con le braccia e il mento appoggiati su un tavolo di formica. L’ambiente era del tutto disadorno. Sopra lo stipite di una porta grigia alla sua sinistra scintillava l’obiettivo di una telecamera che, come la ronda di un soldato stanco durante il turno di guardia, ruotava a destra e a sinistra a cadenza regolare, abbracciando col suo sguardo ronzante i quattro angoli della stanza.
Thomas si tirò su, appoggiandosi allo schienale della sedia. Notò con stupore di non essere legato, né costretto in altre forme di prigionia. Poteva muoversi liberamente, e così fece, poiché le gambe indolenzite gli facevano pensare che doveva essere stato incosciente per diverso tempo. Alla sua destra c’era una piccola finestra senza tende da cui penetrava una luce lattiginosa. Il ragazzo si avvicinò al vetro e osservò le proprie braccia al chiarore di quella specie di alba sporca proveniente dall’alto. Il panorama che gli si offriva era una minuscola striscia di cielo ostruita dall’asfalto di un marciapiede, per cui comprese che si trovava in una specie di seminterrato. Si avvicinò alla porta, ma lo sguardo severo della telecamera gli suggerì immediatamente che non sarebbe stato saggio andarsene senza prima ascoltare le ragioni di chi l’aveva trascinato là dentro; in ogni caso, la serratura era bloccata, per cui l’unica cosa che gli restava da fare era tornare a sedersi e aspettare che qualcuno fosse andato a fargli visita.
Non dovette pazientare a lungo. Pochi minuti dopo l’ingresso si sbloccò ed entrò una donna di mezza età, seguita da un tipo vestito di bianco e da un paio di energumeni che si arrestarono sulla soglia, inchiodando i loro sguardi di ghiaccio a quello di Thomas. Quest’ultimo si ricordò della pistola che aveva con sé ed ebbe un sussulto. Cercò di portare la mano dietro la schiena senza farsi notare, ed ebbe appena il tempo di sfiorare la sua maglietta per realizzare che l’arma era al suo posto: curioso, fino a quel momento non si era reso conto di averla ancora addosso. Possibile che quei gentiluomini non l’avessero notata? La cosa gli parve fin da subito piuttosto improbabile, ma in quel frangente non era in grado di trattenere un pensiero a sangue freddo per più di mezzo secondo.
La donna doveva avere all’incirca cinquant’anni. Indossava una maglia a maniche lunghe di colore scuro, poco distinguibile nella penombra ma che metteva in risalto la sua figura slanciata, un paio di jeans e scarpe da ginnastica bianche. Gli occhi e i capelli, che le ricadevano ordinati sulle spalle, erano dello stesso colore della mezzanotte. Accanto a lei, e a pochi passi da Thomas, si era fermato l’uomo bianco, tanto nella carnagione quanto nell’abbigliamento, e piuttosto magro: le due figure così appaiate sembravano quasi lo ying e lo yang, due espressioni cromatiche opposte che continuavano a fissare il ragazzo senza aprire bocca, sorvegliate dagli omaccioni che avevano scelto di restare indietro.
Fu lui a parlare per primo: – Come ti senti? –. Aveva una voce limpida e gradevole. Man mano che il sole onirico sorgeva a far luce sull’Hub, il suo volto sembrava acquisire sempre più biancore, come se fosse stato sul punto di tramutarsi in angelo. Tuttavia la sua espressione non tradiva particolari sentimenti di benevolenza: sembrava piuttosto stanco, gettato in uno stato di profonda rassegnazione.
– Non lo so, ma di certo non posso dire ‘bene’ – rispose Thomas. – Posso chiedere chi siete e dove mi trovo?
– Vuoi rispondere tu, Miyuki? – rispose, rivolgendosi alla donna.
Miyuki. Thomas ebbe un sussulto.
Voleva dire che era lei la famosa Miyuki Jones di cui Butterfly andava in cerca? La cosa stava prendendo una piega inquietante. – Miyuki? – domandò con un filo di voce. La cosa gli parve impossibile, dato che Butterfly aveva espressamente parlato di una ragazza, mentre colei che aveva di fronte era decisamente più attempata.
– Già. Piacere di conoscerti – rispose, tendendo la mano verso di lui. Le sue labbra sanguigne si aprirono in un sorriso dolce su quel viso piccolo e proporzionato. Thomas ricambiò il gesto con titubanza. – Beh… Non so esattamente a cosa andrò incontro dopo che gliel’avrò detto, ma… ecco, sono stato mandato a cercarla. O meglio, direi piuttosto a salvarla da qualcuno, se così si può dire. Anche se… non so esattamente se è lei l’oggetto della mia ricerca.
– Oh, sicuro, – riprese l’uomo che, adesso, pareva divertito – credo proprio che volessi riferirti a me. Sono io quel qualcuno, io l’artista folle, l’assassino rapitore di gente. Beh, stando così le cose, ci hai trovato, Thomas.
Per la seconda volta, il ragazzo avvertì una possente fitta di disagio lungo la schiena. – S-sapete il mio nome? – farfugliò, accarezzando la pistola conficcata nei suoi pantaloni.
La donna tornò a parlare. – Sì, Thomas, sappiamo chi sei. Lo sappiamo fin dal primo istante in cui sei entrato nell’area di pertinenza di colui che chiami Butterfly.
– Com’è possibile? Scusate, n-non riesco a capire.
A questo punto la porta grigia cigolò di nuovo, le due guardie si scostarono e lasciarono entrare un vecchio, ossuto e ingobbito, che procedette a passi lenti verso il centro della stanza. Non guardò in faccia nessuno tranne Thomas, il quale riconobbe subito l’espressione enigmatica, il mezzo sorriso di quel volto dagli occhi così azzurri da apparire innaturali. Era il portiere che aveva incontrato nell’edificio di Butterfly. Era vestito come il giorno prima, con lo stesso gilet sul quale brillava lo stemma del sassofono ricamato in oro. Il giovane era sbalordito, attanagliato da un misto di sentimenti tra cui spiccava il terrore; ma l’uomo in bianco non gli dette il tempo di raccogliere le idee, perché si affrettò a spiegare: – Ecco come abbiamo avuto informazioni su di te – dichiarò indicando il vecchio, che dopo aver scrutato a fondo Thomas era andato ad appoggiarsi vicino alla finestra senza dire una sola parola.
– I-io non so davvero cosa cazzo stia succedendo – mormorò il ragazzo. Aveva deciso, per la sua salute mentale, di rinunciare a inseguire ogni possibile barlume di logica e abbandonarsi agli eventi così come gli si presentavano, senza opporre resistenza se non, eventualmente, per difendersi.
– Mike, – disse Miyuki in tono apprensivo – non diamo troppi stimoli a questo ragazzo, altrimenti uscirà di testa. Credo sia già abbastanza provato, e penso che dovremo dargli una spiegazione senza esitare oltre.
L’uomo fece cenno di sì con la testa: – D’accordo, d’accordo, forse hai ragione, cerchiamo di procedere in modo graduale. Parla tu con lui, io voglio fumare una sigaretta.
Si avviò verso l’uscita e il vecchio lo seguì a distanza, non potendo tener dietro al suo passo svelto. Quest’ultimo, prima di sparire oltre la soglia, voltò lo sguardo un’ultima verso il ragazzo e gli mostrò un ampio sorriso, come se lì avesse voluto concentrare tutto ciò che non sarebbe mai riuscito a comunicargli.
Le guardie continuavano a sostare là, granitiche, incardinate sulla stessa mattonella, e perse in chissà quali pensieri.
Miyuki si sedette sul tavolo di formica, così vicino a Thomas che poteva quasi toccargli il ginocchio con la punta della scarpa. Il giovane era rimasto colpito dalla dolcezza materna del suo sguardo. Quando sorrideva, le sue labbra si contraevano in una smorfia impercettibile, segno di una spensieratezza che l’età adulta non era riuscita a cancellare. Ogni suo movimento era lo specchio di un modo di fare in cui infantilismo e maturità si erano compenetrati, dando vita a una sorta di eterna crisalide. Se mai un giorno fosse diventata farfalla, le sue ali avrebbero sempre portato il segno della ragazzina che in lei viveva.
– Innanzitutto volevo chiederti scusa per il colpo sulla testa che quei due laggiù ti hanno dato – esordì, puntando il dito verso le guardie del corpo, congelate in un’espressione vuota. Thomas trovava piuttosto inquietante che non avessero fino a quel momento aperto bocca, neppure una volta, nemmeno per errore. – Se ci fossimo avvicinati a te con le buone, cercando di attaccare bottone, per quanto ne sapevamo avresti anche potuto spararci con la pistola che tieni dietro la schiena – proseguì, facendo sussultare il ragazzo, il quale capì che la sua arma era stata avvistata. Per quale ragione non gli fosse stata sottratta, restava al momento un mistero.
– Mi sembra piuttosto ragionevole – rispose il giovane con poca convinzione, senza accennare all’ultima parte del discorso. – Ma adesso cosa ne sarà di me? Immagino che mi farete fuori, o qualcosa del genere. – Non poté non stupirsi di quanto fosse calmo, nel momento in cui pronunciava quelle parole. Forse a sudare freddo non era più la sua pelle, bensì la sua anima.
– Non ti faremo fuori, Thomas Sfrucugli. Ci sono diverse cose che devi sapere. Cosa faccio, Mike, comincio a raccontare? – domandò al vecchio, che nel frattempo era rientrato nella stanza. Quest’ultimo si limitò ad assentire, esibendo un sorriso piuttosto contratto.
– Aspetti un momento – la interruppe Thomas, agghiacciato da un’intuizione improvvisa. – Ha detto… Mike? Ma… Se lei è davvero la persona che tiene Miyuki in ostaggio, non dovrebbe chiamarsi Shokushu?
L’uomo di mezza età si portò a pochi centimetri da Thomas, così da poterlo osservare nel profondo del suo sguardo turbato mentre gli rivelava che il suo vero nome non era Shokushu, bensì Mike Eschenwood. – Ti dice niente? Sono sicuro che l’hai già sentito da qualche parte.
Thomas deglutì con violenza. – Mike Eschenwood – ripeté come un automa. – Uno dei membri fondatori della MindLab. Quello che è riuscito a scappare dopo l’incidente dei test sperimentali.
– Incidente? Di che incidente parli? – domandò con espressione sinceramente stupita. Subito dopo, tuttavia, il suo viso si increspò come un’onda del mare spazzato da una tempesta furibonda. Senza attendere una risposta, batté i pugni sul tavolo e gridò: – Non ne posso più delle stronzate che va raccontando in giro quel figlio di puttana di Wallace.
– Mike, ti prego, calmati – esclamò Miyuki, alzandosi di scatto dal tavolo e poggiando una mano sulla sua spalla. – Quello stronzo avrà ciò che si merita, ma dobbiamo restare concentrati.
– Certo, certo, hai ragione. In fin dei conti, il vento sta per cambuiare. – Colui che si era presentato come Mike Eschenwood sembrava agitato, emotivamente sovraccarico. Continuava a guardarsi intorno con apprensione, sottraendosi alla presa e allo sguardo di Miyuki.
Thomas cominciò a riflettere, per quanto poteva, su quel che aveva appena sentito; ci rimuginò per un pezzo, finché non si ricordò come e perché anche il nome Wallace non gli era sconosciuto. Earle Wallace e Mike Eschenwood erano due tra i fondatori del progetto originale chiamato MindLab. Guardò, incredulo, lo scienziato e Miyuki mentre discutevano, e si sentì all’improvviso distante mille chilometri da qualsiasi fenomeno fisico, imprigionato in una trappola di incubi senza inizio né fine.

 

Ivan Bececco

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