Racconti d'autore

Il mausoleo di Colle Ventoso – Racconti d’autore

Scritto da Ivan Bececco

Racconti d’autore

«Nonno, manca ancora molto?»
«Vedi laggiù, all’orizzonte?»
Indicò la sagoma, piccola ma ben distinta nell’azzurro del cielo, di un monumento che si ergeva sulla cima del Colle Ventoso. Notai che la piaga di mio nonno si era ormai estesa fino alla punta delle dita: la sua mano era gonfia, violacea, tumefatta dalla malattia. Nonostante fosse ben consapevole che non gli sarebbe rimasto molto tempo da vivere, aveva preso la ferma risoluzione di visitare il mausoleo di famiglia: «Voglio andare a morire là, dove riposano alcuni dei nostri antenati, e affrontare con te questo viaggio. È meglio che lo faccia da vivo piuttosto che da morto, dentro una cassa». Queste erano state le sue parole circa due mesi prima che ci mettessimo in cammino.
Un oceano d’erba si stendeva adesso sotto i nostri piedi, subito dopo aver attraversato il letto basso di un torrente. Eravamo giunti alla fine di un tragitto che ci aveva messo a dura prova, ma che la lunga tradizione della nostra famiglia esigeva che venisse affrontato a piedi, per rendere onore alle tribolazioni patite dai nostri avi prima di trovare un suolo favorevole su cui stanziarsi, arricchirsi e fondare un regno destinato a durare per molti secoli. Oggi di quelle antiche dimore, poi convertite in complesso cimiteriale e destinate all’abbandono, non sopravviveva che qualche vago ricordo, in cui alla realtà storica degli eventi si erano via via aggiunti particolari sempre più fantasiosi, tanto che l’intera vicenda della nostra famiglia aveva assunto gli aspetti e i contorni di un meraviglioso racconto da focolare. D’altra parte è in questo modo che a me era stata sempre raccontata, e se da bambino certi episodi avevano fatto sussultare la mia fantasia, crescendo avevo addomesticato la mia immaginazione fino a persuadermi che il mausoleo di Colle Ventoso, la cui presunta, sfolgorante bellezza era stata immortalata in poemi epici e ballate di ogni genere, altro non fosse che il frutto della fervida fantasia di qualche vecchio zio buontempone.
Gli ultimi discendenti della nostra famiglia avevano smesso da tempo di onorare la tradizione. Mio nonno era il solo a non aver mai smesso di credere alla leggenda del mausoleo, di cui si diceva che custodisse tesori di immenso valore: aveva sempre espresso il desiderio di compiere il viaggio, e io, che sotto le sue amorevoli cure ero cresciuto e che gli volevo un gran bene, non avevo potuto fare altro che accontentarlo, nonostante le sue condizioni di salute.

Un branco di colombe volò sopra le nostre teste e sparì dietro una nuvola bianca che sorvolava placidamente l’orizzonte, come un grosso vascello senza vele.
Salimmo lentamente il pendio erboso fino a raggiungere la spianata dell’edificio. Le mappe che mio nonno si era procurato prima di partire non avevano mentito: davanti a noi, supremo, vetusto e dimenticato come un dio minore dell’antica Grecia, sorgeva il complesso di rovine di pietra che ospitava il luogo del riposo eterno dei nostri antenati. Una lunga serie di colonne alternate ad alberi di pioppo conduceva a un cortile su cui si trovava il cuore del mausoleo: un tempio di pietra quasi del tutto ricoperto di edere, sulla cui architrave si potevano ancora distinguere le figure di qualche bassorilievo eroso dal tempo.
Percorremmo – io incredulo, mio nonno visibilmente commosso – il lungo colonnato e raggiungemmo l’ingresso del tempio. Dopo secoli di oblio, un esponente della nostra famiglia tornava a far visita al cimitero. Mio nonno salì i primi tre gradini della scalinata di accesso, posò il suo fagotto e, con le poche energie che gli erano rimaste, piantò a terra il suo bastone, pronunciando alcune frasi nell’antica lingua della nostra famiglia. Fatto questo, aprì il fagotto ed estrasse una manciata di piume azzurre, lasciando che il vento le facesse delicatamente volare via dal palmo della sua mano. «In Tuo onore, padre, oggi torniamo a calpestare questa terra a te cara, che un tempo accolse le tue fatiche, ti fece risplendere come una stella e infine ti offrì il letto su cui giaci.»
Fu un attimo. Mio nonno perse conoscenza per un istante e cadde all’indietro, rotolando giù dalle scale. Lanciai un grido e mi precipitai su di lui, che per fortuna non era rimasto ferito dall’urto e aveva già ripreso i sensi. Fissò i suoi grandi occhi verdi su di me, li chiuse e poi li riaprì.
«Nonno, che è successo? Ti sei fatto male?»
Sorrise. Era un sorriso stremato ma dolce, lo stesso che mi regalava nelle sere di tempesta, quando il bagliore improvviso delle saette che irrompevano nella mia stanza mi impediva di dormire. Stai tranquillo, mi sussurrava, spiegandomi che non c’è da temere la forza della natura quanto piuttosto la negligenza degli uomini. Chissà se già allora si stesse riferendo alla noncuranza della nostra famiglia nel rendere onore agli antenati, lui che è sempre stato così devoto.
«Ti sei fatto male, nonno? Riesci ad alzarti?»
«Il mio viaggio è finito», rispose con un filo di voce. «Per me non c’è più nulla da fare in questa vita. Nel breve istante in cui ho perso i sensi ho incontrato i nostri antenati, e mi hanno chiesto se sono pronto a raggiungerli».
Immaginavo una risposta del genere, e avevo iniziato a commuovermi prima ancora che finisse la frase. Sapevo che stava per morire, la piaga gli aveva ormai mangiato tutto il corpo ed era stato un mezzo miracolo se era riuscito a raggiungere il mausoleo con le sue sole forze. Contemplai sconsolato la sua scarna figura che traspariva sotto la tunica gialla, e le caviglie nude rosicchiate dal morbo. I suoi sandali di cuoio erano distrutti.
Volle tuttavia che lo aiutassi a rialzarsi. «Desidero guardarti ancora, per l’ultima volta, nipote mio». Si tirò su appoggiandosi alle mie mani, poi si aggrappò al bastone per mantenersi in equilibrio. Sembrava che le sue condizioni fossero peggiorate all’improvviso.
Queste furono le ultime parole che mi rivolse prima di spirare tra le mie braccia:

«Molte cose sono state scritte su questo tempio, la maggior parte delle quali false e dettate dalla meschinità di chi attribuisce importanza a qualcosa solo per il suo valore materiale. Entro queste pareti non è celato nessun oggetto prezioso, né d’oro, né d’argento, né in avorio, né in legno lavorato. Non ci sono statue, marmi, bronzi, monili, medaglie. Non più, almeno. Tutti questi insensati manufatti, che irretiscono l’anima degli uomini, agli uomini sopravvivono, e restano immutati nelle loro forme mentre gli uomini si disfano nel tempo, fino a ritornare polvere e ombra, come scrisse un poeta molto tempo fa. Se solo comprendessimo questo, non ci sarebbero più castelli o palazzi, ma case circondate di alberi che in primavera si impregnano del profumo delle prime fioriture.
Questo stesso edificio, un tempo immenso e fastoso, oggi ridotto a pochi cumuli di pietra, fu un tempo la residenza del nostro capostipite, il padre fondatore di un regno di cui oggi nessuno ricorda più il nome. Egli fu un sovrano avido e meschino, fin quando, in punto di morte, si rese conto dei suoi errori e si pentì, decidendo di abbattere molte ali della sua dimora e di farla riconvertire a cimitero, destinato ad accogliere i suoi figli e nipoti. Il suo regno sfiorì come una rosa alla fine dell’estate, numerosi discendenti si dispersero, le pagine della nostra storia andarono smarrite nel corso dei secoli.
Sono contento di essere qui, di poter infine riposare accanto ai miei avi. Anche tu li incontrerai, quando sarai chiamato a raggiungerci. Ecco, questo è l’unico tesoro che troverai tra queste pietre: il ricordo della nostra famiglia. Se un giorno avrai dei figli, crescili dando loro amore, e non insegnargli a credere in qualcosa solo quando se ne può trarre un vantaggio personale.
Io sarò sempre accanto a te. Grazie per avermi accompagnato».

Ivan Bececco

 

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