Leggendo l’articolo Una muerte tan dulce di Mario Vargas Llosa, pubblicato sul giornale spagnolo El Pais il 4 aprile del 1999, è riscontrabile una profonda riflessione su un problema ancora oggi difficile da risolvere, ossia il diritto di un uomo a porre fine alla propria vita in presenza di una malattia terminale.
Il codice penale di molti stati vieta e punisce qualsiasi tentativo di attuazione dell’eutanasia, in quanto si tratta di un reato contro l’identità personale. Eppure, nota correttamente Vargas Llosa nel brano preso in questione, «decidere di vivire o no è una scelta assolutamente personale … nessun suicida frustrato è mai andato in carcere per aver trasgredito la legge che obbliga gli uomini a vivere». Allora per quale motivo è penalmente punibile chi aiuta un paziente terminale a morire se quest’ultimo ha deciso liberamente di decedere?
Il punto di partenza per una disamina della faccenda è sicuramente il significato del termine “morte” che rende vano ogni tentativo di comprensione logica nonostante si tratti semplicemente del passaggio da uno stato ad un altro:
Conosciamo la morte, ma non possiamo pensarla. La morte è la fine di ciò che il pensabile rende visibile e per questo è impensabile. Non si può neanche dire che la morte è nulla, perché ciò che non è e ciò che è si riferiscono alla comprensione.[1]
In secondo luogo ci si chede se sia corretto parlare di un diritto a morire, visto che i diritti si riferiscono generalmente alla vita e alla sua piena realizzazione. Sembra perciò assurdo reclamare un diritto alla morte, se non fosse per il fatto che il concetto di dignità non denota necessariamente quello di sacralità della vita: la dignità ha un carattere totalmente ontologico e consiste nella capacità umana di poter discernere tra il bene ed il male; la santità dell’esistenza, punto di forza dell’etica cristiana, è il modus operandi altamente soggettivo che, seppur spesso è incapace di rendere giustizia alla dignità, conserva un valore intrinseco in sé stessa.
Mario Vargas Llosa denuncia questa presa di posizione propria del cristianesimo affermando che:
La morte in Occidente significa la perdita della vita, la unica vita accertabile e vivibile. La sua sostituzione per una vita incerta, vaga ed immateriale risulta inaccettabile anche per il più convinto credente. La decisione di porre fine alla vita è la più grave e tremenda che un essere umano possa prendere.[2]
Nonostante sia innegabile che la dottrina cattolica è ed è stata oppio dei popoli, pare che Vargas Llosa abbia dimenticato il ruolo che il senso comune assume, e con esso il pluralismo delle interpretazioni, nel considerare la pratica dell’eutanasia.
Letteralmente definita “buona morte” è esattamente in questa esplicitazione che si origina una difficoltà semantica: cosa indica l’aggettivo buona? Per uno stoico, buona è la morte sopportata con serenità e valore; per un nichilista la morte stessa si identifica con il bene perché la si considera come la fine di tutti i mali; per un cristiano la morte è buona se avviene secondo il volere di Dio.
Dunque, come pretendere dalla legge, che è per definizione generale, di legiferare su un tema tanto intimo ed individuale?
La narrazione di Mario Vargas Llosa ha il merito di interrogare le coscienze mostrando le difficoltà di un dibattito che continua ad essere controverso e ambiguo giacché va alla ricerca di una verità universale che però può dispiegarsi solo attraverso un punto di vista pratico, ossia morale, e non epistemologico: il compito specifico della teoria, più che dare definizioni, sta nel riconoscimento dell’unica e singolare dignità della coscienza, chiarendo come le ragioni di questa dignità richiedono di essere di volta in volta riconosciute nella relazione con la realtà, in grado di mostrare che la dignità si impone prepotente anche nella morte come nota il bioeticista Daniel Callahan:
Una morte degna corrisponde alla dignità intrinseca attribuita a quel corpo umano che soffre, rispettando la sua volontà e la sua autonomia. L’agonia non deve essere crudele e degradante, ma decorosa, tollerabile e non dolorosa.[3]
Incombe così la necessità dell’eutanasia e del sucidio assistito come soluzione alla scelta di quegli infermi, che nel pieno delle loro facoltà mentali, scelgono di eliminare le sofferenze derivanti da gravi ed incurabili patologie per mezzo del sonno eterno.
La salute è il “dover essere in forma plenaria”, come afferma il filosofo Diego Garcia, cioè realizzare se stessi evitando che l’importante valore della soggettività si limiti alla semplice vita física, ossia alla mera sopravvivenza.
Le questioni centrali a proposito del soggetto umano, del resto, non si possono ridurre ad una semplice definizione di individuo, giacché la stessa nozione di persona ha anzitutto un profilo pratico che solo tramite il farsi esperienza può denotarsi nella sua duplice accezione: quella biologica e quella ontologica.
[1] Emmanuel Lévinas, Dio, la morte e il tempo, Jaka Book, Milano 1996, cit., p. 58.
[2] Mario Vargas Llosa, Una norte tan dulce.
[3] Daniel Callahan, Poner Límites, Editorial Triagastela, Madrid 2004, p. 84.
Irene Diminio