Ogni volta che leggiamo un romanzo ci soffermiamo sulla trama, sulla qualità lessicale e grammaticale, sulla profondità del contenuto. Spesso si dimentica che dietro quel testo si cela un traduttore senza il quale probabilmente non avremmo la possibilità di leggerlo.
Il traduttore ha un ruolo molto delicato, quello di trasferire in una lingua altra i messaggi che l’autore intende trasmettere ai suoi lettori. Egli ha il delicato compito di “far passare” una storia da una cultura a un’altra senza modificarne il significato, attraverso una sorta di mano invisibile che veicola il racconto verso un altro universo culturale.
Il traduttore si configura dunque come un mediatore interculturale senza il quale sarebbe impossibile la fruizione di un testo in una lingua differente dall’originale. Duplice dunque il suo potere: da un lato letterario, dall’altro ideologico e politico. Spesso i traduttori si trovano di fronte a parole, vocaboli concetti che non hanno corrispettivi nella lingua di destinazione. In quei casi attraverso le proprie scelte decidono i significati da trasmettere alla cultura di destinazione. Ciò accade perchè la traduzione ha un duplice legame da un lato con il testo originale, dall’altro con la situazione comunicativa del destinatario.
Chi traduce, non si trova mai in una posizione neutrale, è costantemente costretto a prendere delle decisioni che sono fortemente condizionate dalla cultura di appartenenza, dal proprio genere, dalla propria storia di vita.
Un atto neutrale? Un gesto invisibile?
Non credo si possa parlare di neutralità, al massimo per restare il più possibile fedeli al testo, si dovrebbe applicare nell’atto del tradurre l’etnocentrismo critico di cui parla De Martino. Si può solo in qualche modo avere la consapevolezza di non essere privi di condizionamenti culturali nè della cultura di appartenenza nè della cultura di destinazione del testo.
Il testo tradotto appare quindi come l’incontro tra due culture, quella dell’autore che racconta la storia e quella del traduttore che la interpreta e la riscrive. Un nuovo testo, “uguale e diverso” dall’originale.
“La traduzione è un altro modo dell’impossibile… L’impossibile è, infatti, ciò che viene senza essere chiamato… Senza poter essere previsto o calcolato, al di fuori di ogni possibilità e di ogni potere capace di controllarlo: è la venuta dell’altro, come ciò che irrompe ogni forma di padronanza e disperde ogni modalità di raccoglimento, rimanendo estraneo all’ordine dell'”io posso”, e quindi dell’ambito dell’appropriazione e della comprensione. L’impossibile viene, capita, sorprende. In modo del tutto incondizionato” (Jaques Derrida Il monolinguismo dell’altro, a cura di Graziella Berto, Raffaele Cortina, Milano 2004).
Tonia Zito