Qualche settiamana fa su Repubblica Antonello Guerrera ha commentato la notizia di uno strano caso letterario che ha fatto il giro della rete. Un racconto straordinario pubblicato su un sito di annunci Craiglist, nella sezione Missed Connections di Brooklyn che accoglie i “post-it” di corteggiatori poco intrapendenti per farsi avanti in metrò o bus, ha spopolato in rete col passaparola on line.
Una storia d’amore tra due pendolari di New York che si incontrano ogni giorno in metropolitana, il non luogo per eccellenza dove spesso sboccia l’amore.
I due protagonisti sono attratti l’uno dall’altro ma non hanno il coraggio di dirselo. Il tempo passa, i corpi invecchiano ma i sentimenti restano imprigionati nei loro corpi.
Il racconto, molto apprezzato da Atlantic, Washington Post, Mashable, Gawker, Philly.com che lo hanno celebrato come esempio di vera letteratura, in breve tempo ha fatto il giro della rete diventando virale sui social network.
È una storia vera o è figlia di uno scrittore che ha voglia di giocare?
Ecco la versione italiana secondo la traduzione pubblicata da La Repubblica.
Ti ho vista sul treno della linea Q di Brooklyn diretto a Manhattan. Io indossavo una maglietta a righe blu e un paio di pantaloni marrone rossiccio. Tu indossavi una gonna vintage rossa e un’elegante camicetta bianca. Entrambi portavamo gli occhiali. Immagino che li portiamo ancora adesso.
Tu sei salita a DeKalb, ti sei seduta di fronte a me e ci siamo guardati negli occhi, per poco tempo. Mi sono innamorato un po’ di te, in quel modo stupido di quando immagini una persona diversa da quella che stai guardando. E ti innamori di lei. Tuttavia, credo ancora che in fondo ci fosse davvero qualcosa.
Ci siamo guardati parecchie volte. Poi abbiamo distolto entrambi lo sguardo. Ho provato a immaginare qualcosa da dirti – forse fare finta di non sapere dove eravamo diretti e chiederti indicazioni, oppure dire qualcosa di carino sui tuoi orecchini a forma di stivale, o semplicemente “che caldo!”. Ma mi sembrava così banale.
A un certo punto ti ho sorpreso mentre mi osservavi. E tu hai distolto immediatamente lo sguardo. Hai tirato fuori un libro dalla borsa e hai iniziato a leggerlo – una biografia di Lyndon Johnson – , ma mi sono accorto che non hai girato pagina neppure una volta.
Dovevo scendere a Union Square, ma a Union Square ho deciso di restare a bordo. Ho pensato che avrei potuto prendere la Linea 7 scendendo alla 42esima Strada, ma poi non sono sceso neppure alla 42esima. Anche tu devi aver saltato la tua fermata, perché siamo finiti entrambi al capolinea di Ditmars. Qui siamo rimasti seduti, tutti e due, in attesa.
Ho inclinato la testa verso di te con curiosità. Tu ti sei stretta nelle spalle e hai tenuto in mano il libro, come se il motivo fosse quello. Ma non ho detto niente. Abbiamo ricominciato il tragitto all’incontrario – giù lungo Astoria, attraverso l’East River, spostandoci attraverso Midtown, da Times Square a Herald Square a Union Square, passando sotto SoHo e Chinatown, transitando sul ponte e tornando a Brooklyn, superando Barclays e Prospect Park, e ancora Flatbush e Midwood e Sheepshead Bay, fino in fondo a Coney Island. E arrivati a Coney Island, sapevo che dovevo dire qualcosa.
Ma non ho detto niente. Così siamo ripartiti di nuovo. Abbiamo fatto su e giù lungo la linea Q, tante tante volte. C’era folla nell’ora di punta, poi non più. Abbiamo visto il sole tramontare su Manhattan mentre attraversavamo l’East River. Mi sono dato delle scadenze: adesso le parlo prima di arrivare a Newkirk; anzi, no, prima di Canal. Invece sono rimasto zitto.
Per mesi siamo rimasti seduti nel vagone, senza dirci niente. Siamo sopravvissuti grazie a sacchetti di caramelle Skittles venduteci da alcuni ragazzini per finanziare le loro squadre di basket. Forse in treno abbiamo ascoltato un milione di musicisti di mariachi, e per poco non siamo stati presi a calci in faccia da centinaia di migliaia di ballerini di break dance. Ho fatto l’elemosina fino a restare senza banconote da un dollaro. Quando il treno risaliva in superficie ricevevo sms e messaggi vocali (“Dove sei? Che cosa ti è successo? Stai bene?”), fino a quando la batteria del mio cellulare si è spenta.
Le parlerò prima dell’alba. Le parlerò prima di martedì. Più aspettavo, più diventava difficile. Che cosa avrei mai potuto dirti a quel punto, mentre superavamo quella stazione per la centesima volta? Forse, se fossimo ritornati alla prima volta in cui la linea Q aveva cambiato tragitto sulla linea locale R del weekend, avrei potuto dire: “Così non va bene “. Ma ormai non potevo più dirlo, vero? Mi prenderei a calci da solo per giorni interi se penso a quante volte hai starnutito: perché non ti ho detto: “Salute!”? Quella semplice parolina sarebbe stata sufficiente a farci immergere in una conversazione. E invece siamo rimasti seduti in quell’insulso silenzio.
Ci sono state serate in cui eravamo le uniche due anime a bordo di quella carrozza, forse di tutto il treno, e anche in quel caso mi sono imbarazzato all’idea di disturbarti. Sta leggendo il suo libro, pensavo, non
vuole comunicare con me. Tuttavia, ci sono stati momenti in cui ho avvertito un legame. È capitato che qualcuno gridasse qualcosa di folle su Gesù e noi ci siamo subito guardati, come per registrare le reazioni dell’altro. Una coppia di adolescenti è scesa, tenendosi per mano, ed entrambi probabilmente abbiamo pensato: L’Amore dei Giovani.
Per sessant’anni siamo rimasti seduti su quella carrozza, fingendo a malapena di non notarci a vicenda. Alla fine ti ho conosciuta così bene, seppur superficialmente. Ho memorizzato le pieghe del tuo corpo, i contorni del tuo volto, il tuo respiro. Una volta ti ho visto piangere, dopo aver dato un’occhiata al giornale di un vicino. Mi sono chiesto se tu stessi piangendo per qualcosa di specifico o soltanto per il passare del tempo in genere, impercettibile e all’improvviso percettibile. Volevo darti conforto, avvolgerti nelle mie braccia, rassicurarti, dirti che sarebbe andato tutto bene, ma mi sembrava troppo sfacciato. E così sono rimasto incollato al mio posto.
Un giorno, a metà pomeriggio, ti sei alzata mentre il treno entrava nella stazione di Queensboro Plaza. Il solo alzarti in piedi ti è risultato difficile. Non lo facevi da sessant’anni.
Reggendoti ai corrimano, sei riuscita ad arrivare fino alla porta. Hai esitato un po’, forse aspettando che io ti dicessi qualcosa, dandomi un’ultima possibilità di fermarti. Ma, invece di liberare le mie pseudo-conversazioni soffocate per una vita intera, sono rimasto in silenzio. E ti ho visto scivolare via tra le porte scorrevoli.
Solo dopo alcune fermate mi sono reso conto che te ne eri andata davvero. Ho aspettato che tu risalissi in metro, per sederti accanto a me e appoggiare la testa sulla mia spalla. Senza dire nulla. Non era necessario.
Quando il treno è tornato a Queensboro Plaza, mi sono sporto. Forse eri lì, in banchina, ancora in attesa.
Forse ti avrei visto, sorridente e radiosa, con i lunghi capelli grigi agitati dal vento del treno in arrivo.
Invece no. Eri andata via. E allora ho capito che molto probabilmente non ti avrei più rivista. E ho pensato a quanto è incredibile poter conoscere qualcuno per sessant’anni e malgrado ciò non conoscere per niente quella persona.
Sono rimasto a bordo finché non sono arrivato a Union Square. Sono sceso e ho preso la linea L.
Traduzione di Anna Bissanti
Immagine di Khomenko
Tonia Zito