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Capitolo I – Antonio Mauriello

Scritto da Tonia

Era uscita quella mattina, come faceva da dieci anni. Aveva imboccato la strada che portava alla stazione, percorso i primi metri: sentiva i suoi passi procedere lentamente, quasi i piedi si incollassero all’asfalto. Nebbia e buio pesavano sulla sua pelle e solo il tintinnio del portachiavi che batteva sull’anello al suo anulare destro le ricordava dove stava andando e per quale motivo. Non poteva sopportare che i suoi occhi scivolassero via, liquefacendosi nell’inconsistenza delle parole non dette, che le sue mani abbandonassero ogni cosa fosse stata loro. Bagnata, rimaneva immobile sul binario, mentre sfrecciava il treno su cui non era salita.

Il treno successivo non sarebbe passato che dopo trentacinque minuti, ma per lei non era un problema, quel giorno aveva tutto il tempo, aveva già calcolato che il regionale che la portava in ufficio lo avrebbe volutamente perso. Quel giorno, infatti, non doveva recarsi al lavoro, aveva chiesto un giorno di permesso, il suo impegno era richiesto altrove, e per ragioni ben più importanti peIl suo treno finalmente arrivò, in regolare ritardo. Oramai era giorno da un pezzo anche se non erano ancora le otto. Aveva già preso tre caffè, il primo se lo era preparato da sola a casa, il secondo al bar della stazione come faceva di solito, ed il terzo al distributore automatico per riempire il ritardo del treno. Quando si aprirono le porte del vagone, gettò via la sua quinta sigaretta.

L’umido della giacca cominciava a penetrarle dentro, tremava ed era stufa.

Era stufa di sistemare pratiche in un ufficio polveroso dell’amministrazione provinciale. Inizialmente era stata costretta ad accontentarsi, ma si augurava, anzi ne era certa, che i suoi studi l’avrebbero condotta, prima o poi da tutt’altra parte. Lavorava in un archivio nel quale erano custodite tonnellate e tonnellate di pratiche inutili. Tante volte si era divertita a tirare fuori un faldone a caso per leggerne il contenuto. Ma i documenti con i segreti più inconfessabili su come erano stati spesi i soldi dei contribuenti, erano custoditi in un armadio blindato che si trovava alle spalle del archivista-capo. Spesso Augusta si era trovata da sola in ufficio nel torridi pomeriggi estivi, prima che andassero tutti in ferie, ma gli unici ad avere la chiave della cassaforte erano il suo capo e, ovviamente l’assessore Micheli, dal quale dipendeva la struttura, quindi su quel fronte la sua curiosità rimaneva inappagata.

Quel giorno, si doveva recare a Milano, per un colloquio di lavoro per la materia nella quale si era laureata con lode a Pisa, negli stessi plessi del grande Galilei: Matematica Statistica. La multinazionale leader del settore “indagini di mercato”, presso la quale si stava recando, per sua fortuna, aveva sede a Zurigo, e per questo lei era fiduciosa che non avrebbe trovato ad esaminarla un commissario raccomandato da qualche politico che ne sapeva meno di lei che poi “le avrebbe fatto sapere”.

Nonostante ciò non era serena, e non solo perché quel giorno ricorreva l’anniversario della morte dei suoi genitori, oramai l’incidente era stato metabolizzato, (la concomitanza delle date era forse un segno?), bensì perché erano tre giorni che dopo l’ennesimo litigio con Marco, lui non la chiamava.

Avrebbe certamente potuto farlo lei, a condizione che avesse vinto la battaglia con il suo orgoglio ma continuava a rimandare. Ad ogni ticchettio che le chiavi di casa che aveva in tasca facevano urtando sull’anello che Marco le aveva regalato (ma che Augusta, per non “impegnarsi” eccessivamente, non aveva messo alla mano sinistra), si ricordava che doveva concludere quella sua battaglia interiore; così finalmente si decise di mettere fine al suo sterile broncio e chiamarlo appena rientrava.

Aveva deciso.

Invece sul treno, affollato più di quello che lei prendeva la mattina per recarsi al lavoro, in quanto pieno di studenti, fu Marco a chiamare lei, per assicurarsi che non si fosse dimenticata dell’appuntamento o avesse rinunciato. Augusta lo rassicurò che era proprio sul treno, poco dopo Monza direzione Milano, per il colloquio con la società alla quale proprio lui aveva insistito per farle presentare la domanda, e le fece un “in bocca al lupo”. Il suo tono era tranquillo, segno che anche lui non era più imbronciato, e Augusta chiuse la telefonata promettendogli di raccontargli tutto appena finito il colloquio.

Quasi tutti i neuroni si rimisero a frullare nella sua testa. Ripassò mentalmente le formule più complesse di Matematica Applicata, cosa che prima non poteva fare in quanto ingolfata da tutti i suoi problemi, e quali erano i casi in cui ciascuna formula era da preferire alle altre.

Una timida lama di sole si intravedeva nella nebbia che andava diradandosi dal finestrino del treno in corsa. Più passava il tempo, più Augusta non vedeva l’ora di ingaggiare la lotta con il suo sconosciuto esaminatore. Si sentiva capace di sconfiggere qualsiasi drago, ma aveva bisogno di una sigaretta. Oramai i suoi abiti si erano asciugati al calore del vagone e della calca degli studenti. Appena il treno si fermò sferragliando al binario dodici dell’enorme hangar della stazione di Milano, scese, e corse dritta al bar per il suo quarto caffè. Se lo portò via in un bicchierino di carta e lo sorseggiò, pensando, mentre fumava, a suo padre che quarant’anni prima, proveniente da Napoli, forse aveva fatto la stessa cosa, facendo la guardia ad una valigia di cartone piena di sogni e delle sue speranze.

Pensò bene, dopo tutte quelle sigarette, di fare un salto ai bagni, si spazzolò energicamente i denti prima di uscire per recarsi due piani sotto per la metrò.

Una passata di lucidalabbra, un grosso respiro prima di tornare a riempirsi i polmoni di aria satura di idrocarburi e polveri sottili della grande metropoli, poco più di trecento metri a piedi durante i quali respirò con la stessa frequenza dei suoi passi per non arrivare a destinazione con il fiatone, ed infine un’ascensore la portò al suo piano.

L’esaminatore era più giovane di lei, e certamente più fortunato di lei, pensò, intanto per il posto che occupava e poi perché come disse quando, correttamente si presentò, si era impiegato giovanissimo in quella azienda otto anni prima. Si complimentò con Augusta asserendo che aveva molto apprezzato la sua tesi, nonostante lei non l’avesse inserita tra gli allegati al curriculum, ed entrò subito in argomento, spiegando in cosa consisteva il lavoro, senza farle nessuna domanda. Come se avesse già deciso, positivamente.

L’esaminatore, ragazzo sveglio, capace, perché gli veniva chiesto professionalmente, di interpretare anche i minimi movimenti dei candidati, aveva notato che quando aveva fatto riferimento alla tesi di Augusta, questa aveva tirato su, impercettibilmente gli zigomi e aggrottato la fronte, indice di stupore, si sentì in dovere di rassicurarla circa la sua onestà sottolineando che la parte più interessante era quella relativa al Teorema di Montecarlo, il quale, con particolari campioni portava a risultati statisticamente poco verosimili. Quello era l’argomento che l’aveva messa in conflitto con il relatore della tesi, che lei ostinatamente non volle modificare, e che divenne inevitabilmente oggetto di discussione alla seduta di laurea. Solo chi aveva veramente letto il suo elaborato poteva conoscere quel dettaglio.

Fu inevitabile quindi che lei gli chiedesse come avesse fatto ad avere la sua tesi, ed il commissario le spiegò che dopo che lei aveva presentato il curriculum, e dopo averlo letto, aveva contattato il suo professore, che nel passato era stato loro consulente, il quale aveva dato ottime referenze, oltre a fornirgli il file in questione.

Augusta pregava in cuor suo che il colloquio finisse presto, in quanto sentiva che si stava letteralmente sciogliendo. Quando però, il suo interlocutore passò al sodo, avvertì un po’ di delusione. L’incarico prevedeva un rapporto part-time che Augusta era libera di gestire come voleva, lavorando anche da casa, volendo. Tra loro ci sarebbe sono stato un fitto interscambio di dati che lei avrebbe elaborato in piena autonomia, anzi, che addirittura lei poteva continuare a mantenere la sua attuale occupazione.

Quest’ultima condizione e la misura del compenso le fece superare immediatamente l’attimo di delusione. L’accordo era che si sarebbero rivisti per la firma del contratto appena lei, dopo averlo ricevuto in posta elettronica, lo avrebbe attentamente letto. Precisione svizzera, pensò. Nello scompartimento del vagone del treno che prese per il ritorno era sola, fumava contro le regole ed entusiasta raccontò tutto a Marco come promesso.

Nei mesi di collaborazione con gli elvetici che seguirono, Augusta ebbe modo di onorare l’impegno preso con la società svizzera applicando a diverse ricerche il suo l’algoritmo che permetteva di correggere l’errore intrinseco del sondaggio puro, ricevendone sempre le congratulazioni dei vertici di Zurigo.

Con i compensi ricevuti, oltre a sistemare un poco la casa, che era stata dei suoi genitori, ed era ancora piena dei loro mobili a loro volta pieni di ricordi, aveva acquistato un computer dei migliori che offriva il mercato e spesso la sera lavorava ben oltre la mezzanotte.

Il rapporto con Marco aveva sempre degli alti e bassi, dove i primi superavano i secondi e poiché Augusta era molto distratta dagli impegni, cominciava a capire cosa veramente fosse la “beata normalità” che aveva tenuto legato i suoi genitori, dei quali ricordava i litigi, fino al giorno dell’incidente.

All’archivio dell’amministrazione il Consiglio Provinciale aveva nel frattempo deliberato che si sarebbe passati alla digitalizzazione, svuotando gli scaffali via via che il materiale veniva scansionato. A tambur battente (segno che la ditta alla quali era stato affidata la fornitura aveva urgenza di collaudare le macchine ed essere pagata), arrivarono le apparecchiature necessarie e dopo settimane di discussione a livello sindacale su chi doveva mettere le mani su quelle nuove tecnologie, si cominciò il lavoro.

L’impianto di condizionamento, che già faceva boccheggiare i dipendenti nei mesi estivi, con l’introduzione di quei nuovi armamenti, che generavano molto calore, collassò. Ma poiché il progetto aveva sottovalutato, anzi ignorato il problema, c’era solo da rassegnarsi, in quanto la cosa non si sarebbe risolta prima dell’autunno, quando forse le macchine potevano fungere impianto di riscaldamento, e quindi sarebbe stato procrastinato alla prossima estate.

In uno di questi pomeriggi torridi, l’Archivista Capo, in preda ad un colpo di calore, per recarsi al distributore automatico situato al piano terra, abbandonò la sua scrivania sulla quale campeggiava il suo enorme mazzo di chiavi. Come in un film americano, Augusta si levò di bocca la gomma che stava masticando e prese il calco della chiave della cassaforte.

Non aveva nessun motivo per compiere quel gesto se non un infantile impulso come per dirgli “te lo faccio vedere io il segreto!”.

Antonio Mauriello

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